Bei giochi e puzza di pesce. Ma il meglio deve ancora venire - articolo
C'è bisogno di una rivoluzione di modi. E di contenuti.
A dar retta a chi conosceva bene Marshall McLuhan o Philip Kindred Dick (ma il discorso potrebbe estendersi a qualsiasi visionario e di qualsivoglia disciplina dello scibile umano), pare che di predire il futuro i tizi non avessero intenzione alcuna. Si limitavano a osservare con attenzione chirurgica le pieghe del presente.
Ora, se non sapete chi siano McLuhan o Dick, suggeriamo di interrompere la lettura di queste righe e di correre a fare una ben più proficua ripassata generale. Fidatevi, la vostra vita cambierà col solo ausilio di un paio di libri o un film.
Se, al contrario, di sguardi sul presente che invero fan luce sull'orizzonte siete pratici, ecco cosa vi proponiamo di seguito: di dare un'occhiata a tre dei titoli recenti più chiacchierati, nella fattispecie Tomb Raider, Metal Gear Rising: Revenegeance e BioShock Infinite, per tentare di capire quanto, cosa e come grazie a loro, oggi, si possa intravedere un po' di quello che accadrà domani.
Non certo perché ci si ritenga all'altezza delle summenzionate menti illustri, piuttosto per omaggiarne il metodo appropriandosi anche di quel po' d'azzardo che fece di un professore di letteratura inglese il mass mediologo più citato al mondo, e dello scrittore più incisivo degli ultimi 50 anni uno spiantato col vezzo dell'anfetamina.
Per amore dell'entrata in scena, premettiamo la nostra tesi: oggi il meglio del settore è sì strabiliante, ma puzza di pesce; quello dimenticato in frigo da una settimana, per giunta. Tuttavia, invece di incoraggiare visioni distopiche tanto care ai due di cui sopra, la valutazione è incoraggiante: in altre parole, il meglio deve ancora arrivare. E verrà presto, statene certi.
Ma attenzione, non si confonda questo ottimismo con quello di chi attende l'avvento messianico della next generation come manco un fan di Star Trek. Il meglio verrà solo perché, esaurita la sua infanzia, oggi il videogioco deve affrontare sfide adulte. È chiamato a responsabilizzarsi, facendosi carico di istanze mature e prima bene o male ignorate. Ed essendo, almeno per chi scrive, uno degli interpreti migliori e più opportuni della contemporaneità, dovrà o vincere la competizione o soccomberle.
Ciò premesso, si parta da Tomb Raider: quel che rende il gioco di Crystal Dynamics irresistibile (perché sì, cari recensori della prima ora, obnubilati dalla nomea di Lara Croft o in cerca di gloria personale, il ritorno dell'archeologa digitale è semplicemente il miglior gioco della serie. Punto), ebbene, quel che rende Tomb Raider il titolo più contemporaneo in circolazione è una miscela efficace di generi ludici diversi, dettaglio grafico da godimento pub(bl)ico, curva di apprendimento calibrata al millesimo e umanizzazione del personaggio con pochi paragoni. Funga da indizio l'assenza, nell'elenco, dell'elemento narrativo. Chi scrive non ha volutamente prestato la benché minima attenzione all'intreccio drammatico del titolo. Risultato? Si è divertito come un bambino comunque. Anzi, forse di più.
"Oggi il videogioco deve affrontare sfide adulte facendosi carico di istanze mature e prima bene o male ignorate"
Il segreto sta nella regia del gioco, capace non solo di far credere all'utente di avere la massima libertà configurativa (cosa non vera anche solo nella gestione delle inquadrature), ma sempre asservita alle meccaniche ludiche. Ed eccolo il punto nodale della questione, da affrontare insieme con un elemento visto di sfuggita poco sopra: il dettaglio grafico. Chi scrive ritiene che qualità grafica, accuratezza estetica e fotorealismo siano marginali rispetto alla qualità intrinseca di un videogioco. Tetris o Nintendo l'hanno capito da tempo, tanto che non è il caso qui di divagare in approfondimenti noti ai più.
Il medesimo discorso riguarda anche la famigerata trama. Per curati che siano, la background story o pure il plot più complesso non rendono un bel gioco tale. Se il videogame è artefatto interattivo, abbandoni una volta per tutte certe ambizioni narrative e si concentri sulle proprie retoriche specifiche. Suonerà un po' oltranzista per quanto simpatico ai game scholar di scuola ludologica, ma al limite trama e grafica possono impreziosire un gioco amplificandone, e anche di molto, la capacità immersiva; il valore del titolo, fidatevi, sta altrove. Se il vostro desiderio fosse di assaporare il meglio del racconto contemporaneo, stareste leggendo un romanzo. Il fatto è che voi - noi- cercate anche altro.
Non siete d'accordo? Bene, si passi a Metal Gear Rising: Revengeance, nuovo masterpiece del genio riconosciuto di Hideo Kojima, uno che si definisce anche su Twitter al «70 percento composto di cinema». E che, non a caso, ha festeggiato la propria venuta a Milano chiacchierando pubblicamente con Enrico Ghezzi, mica con Alessandro "Stermy" Avallone. Un motivo ci sarà.
"Revengeance tradisce con evidenza la soggezione nei confronti del mezzo filmico"
E il motivo è che Revengeance tradisce con evidenza la soggezione nei confronti del mezzo filmico, in qualche modo sottolineando la propria (supposta) inferiorità a una disciplina che ha tutt'altre regole grammaticali, una storia più lunga e una maturità diversa.
Detto in parole semplici, se ogni elemento di Tomb Raider è funzionale al gameplay, con effetti di immedesimazione inarrivabili per un film, la cui interattività è acclarata ma di carattere diverso, Metal Gear Rising: Revengeance è un film che suo malgrado deve farsi giocare. Non che dal punto di vista narrativo deluda. Anzi, in puro stile Kojima la grandezza del titolo sta proprio nell'innestare in un gioco elettronico questioni filosofiche, riflessioni non improvvisate e rimandi all'attualità.
I bambini soldato, la contiguità fra mezzo videoludico e guerra contemporanea, i lunghi panegirici sull'identità sintetica (topos, questo, molto caro all'eterno Philip K.) sono questioni che non solo strabordano in Revengeance, tanto da far credere che il genio giapponese abbia imparato a memoria i libri di William Langewiesche o Peter Warren Singer; ma, per la prima volta, conferiscono legittimità tematica alla dissonanza fra le istanze pseudo pacifistiche della storia e un gameplay che si riduce a replicare in eterno lo sterminio dell'altro da sé - pur elegantemente perpetrato a suon di zan-datsu. Il gioco, in fondo, non fa altro che inscenare il dilemma di chi crede, sterminando il prossimo, di salvarlo.
Revengeance è in questo senso la prova "meta-ludica" dei propri limiti. È come se ammettesse di avere vincoli insopportabili. Insomma, se uccidere è davvero una cosa brutta, pare che per capirlo occorra affettare minuziosamente fino all'ultimo dei nemici. Si potrebbe chiamare discrepanza "ludo narrativa", ma diremo solo che se Kojima ci avesse scritto un film avrebbe avuto vita più semplice. E fatto una figura migliore.
Dello stesso difetto pare in parte soffrire anche BioShock Infinite, se non fosse che quel maniaco di Ken Levine e la sua cricca di Irrational Games hanno approfondito tanto la storia da rendere velleitarie le obiezioni a riguardo. La solidità di BioShock Infinite non può prescindere dal suo contesto narrativo. Come per Mass Effect, è difficile scindere le meccaniche ludiche da quel che lo schermo racconta. Solo che difficile non è impossibile; ed è qui che entra in scena la puzza di pesce subodorata all'inizio.
"Piaccia o meno, le loro dinamiche sono ampiamente codificate, viste, straviste e soprattutto vincolanti"
Per quanto eccelsi e più o meno debitori di retoriche non proprie, Tomb Raider (il meglio riuscito dei tre), BioShock Infinite (forse lo "sparatutto" più profondo mai visto) e Metal Gear Rising: Revengeance (un'opera che vorrebbe essere di un'altra disciplina) sono in tutto e per tutto un action game, un FPS e un hack 'n' slash.
Piaccia o meno, le loro dinamiche sono ampiamente codificate, viste, straviste e soprattutto vincolanti. Se su un puzzle ci metti un'immagine di un animale mai visto prima, quello rimane comunque un puzzle. I limiti dei videogiochi contemporanei, i tripla A almeno, quelli che l'industria utilizza per alimentarsi, sono evidenti in tutti e tre i titoli migliori del momento.
Il più bel Tomb Raider visto fin qui rimane intrinsecamente identico all'episodio primigenio del 1996; potrai pure pentirti di quel che stai facendo ma manovrando Raiden dovrai comunque smembrare avversari più o meno robotici; e tu, caro Booker DeWitt, portatore di libertà salvifiche in un totalitarismo orwelliano, quale buona novella pensi di insegnare mentre sgozzi sconosciuti col tuo Sky-Hook?
Non ci si allarmi comunque, non tutto è perduto. Anzi.
C'è chi sostiene, sottoscritto compreso, che i blockbuster videoludici - tematicamente blindati per esigenze di mercato - diverranno una nicchia fra le tante. A loro competerà di eternare più o meno con arguzia temi e dinamiche note. Sempre più belli e più... "cinematografici", forse si azzarderanno anche a perlustrare terreni sconosciuti, fra IP originali e rivoluzioni meccanico-contenutistiche. Lo speriamo.
"Nel futuro sogno giochi narrativi che non sembrino favole per subnormali se paragonati a un film di Kubrick"
Ma siamo più portati a credere che le novità arriveranno soprattutto da altri e nuovi protagonisti del settore. E non riguarderanno solo eroici virgulti digitali pronti a sostituire le vecchie glorie dello schermo, o titoli indie inopinatamente baciati dalla fortuna. Con più probabilità sarà il videogioco stesso a ripensarsi come medium. Ad allargare i propri confini, a (ri)generare dinamiche ludiche non convenzionali e a rinascere più adulto.
Nel futuro sogno giochi narrativi che non sembrino favole per subnormali se paragonati a un film di Kubrick, a un romanzo di Roberto Bolaño o a un saggio di Foster Wallace. Giochi che tematizzino, chessò, il sacrificio, la condivisione, l'alcolismo, l'essere donna oggi, omosessuale domani... o semplicemente l'Essere umano, sempre.
Nel futuro sogno giochi anche non narrativi che mi facciano pensare o divertire mentre compro il latte, aspetto il tram o leggo il giornale. Anzi, magari proprio perché compro il latte, aspetto il tram o leggo il giornale.
Nel futuro sogno giochi capaci anche di non farmi divertire. Ma di cambiare comunque il mio punto di vista sul mondo.
È di una rivoluzione di modi e contenuti che il settore, vieppiù pervasivo, ha bisogno. Non di un'arma aggiuntiva in Gears of War, della modalità tattica in Call of Duty, o di un nuovo eroe intergalattico e bello in modo assurdo chiamato a replicare Space Invaders.
Ebbene, successi come quello di Minecraft, applicazioni matematiche sotto smentite spoglie come lo spassoso Plague Inc. (per la cui affidabilità simulativa James Vaughan è stato invitato a un mese di lecture presso il Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti); casi come Journey, game designer attivisti tipo Anna Anthropy o Molleindustria, ludo-artisti come gli italiani Santa Ragione e Paolo Taje e mille altri esempi nel mondo, confermano che non sono il solo a pensarla così.
Potrai dire che sono un sognatore e che il futuro è insondabile. Forse, ma McLuhan, Dick e a 'sto punto pure John Lennon, hanno insegnato che quel che farai domattina puoi impostarlo già oggi pomeriggio.
Emilio Cozzi è vicedirettore di Zero, dal 1996 la guida agli eventi di intrattenimento e cultura nelle principali città italiane. Dalla carta all'online e sempre gratis, il network risponde alle più antiche questioni dell'Umanità: chi siamo? Dove andiamo? Quanto costa?.