Il mondo secondo Massimo Guarini - intervista
Murasaki Baby, la scena italiana e la convinzione nelle proprie idee.
La volta in cui andò meglio, il miracolo italiano si rivelò una chiavica di film, una prurigine pecoreccia tanto imbarazzante da non essere nemmeno consigliata dagli antropologi del cinema trash. Stavolta le cose potrebbero essere diverse, grazie a Ovosonico e al loro debutto, Murasaki Baby, presto sui nostri schermi. O meglio, su quelli touch di Ps Vita, visto che il gioco vi sarà destinato in esclusiva.
Le puntate precedenti si riepilogano in fretta: Ovosonico è lo studio fondato dal musicista e compositore Gianni Ricciardi, già collaboratore di Ubisoft, Namco e Capcom, e da Massimo Guarini, noto ai più per essere stato il game director di Naruto: Rise of a Ninja (Ubisoft, 2007) e Shadow of the Damned (Grasshopper Manufacture/Ea, 2011), in altre parole uno dei pochissimi italiani ad avere una credibilità oltre i patri confini.
Dal 2012, grazie al portafoglio di Sony Computer Entertainment Worldwide Studios Europe e in una magione varesina che ricorda il primo Resident Evil, Guarini e squadra allevano Murasaki Baby, scrolling game sui generis - molto sui generis - che acclamato come la miglior preview alla Gamescom dello scorso anno, non attende che la pubblicazione (si vocifera in autunno).
Se François Truffaut diceva che i grandi film possono essere riassunti in poche parole, possiamo descrivere Murasaki Baby come la passeggiata fra impressionismo e poesia di una bimba cartoon (dal character design struggente). Una bimba che dovete, oh voi giocatori, accompagnare per mano, attraverso cambi di scenario e umore, creature fantastiche (in tutti i sensi) e prospettive a sorpresa, nel senso che a volte sarete costretti a ribaltare il device per sfruttarne appieno le potenzialità. In altre parole, una chicca estetica dall'identità riconoscibile (dicasi stile) con dinamiche ludiche finalmente intelligenti e poco note (dicasi originali).
Dopo aver giocato il primo, e finora unico, livello disponibile e al di là di campanilismi patetici, a oggi Murasaki Baby sembra il miglior motivo per accaparrarsi la portatile di Sony. Sia chiaro: aspettarsi che grazie a Ovosonico il made in Italy videoludico si tramuti all'istante in una calamita per talenti e milion dollari sarebbe ingenuo. Molto. Ma credere che grazie al primo titolo finanziato da un titano, l'Italia dell'elettro gaming possa finire sulla mappa internazionale e magari offrire una via più spianata ai game dev intraprendenti, non è inverosimile.
Di questo e altro si è chiacchierato con Guarini, uno che a costo di sembrare megalomane non ha paura di dire chi è, cosa fa e cosa pensa. E uno le cui parole mi segnerei sul taccuino se fossi un virgulto del codice, un artista del pixel, o un aspirante game designer. Perché, e sia concesso il predicozzo, certo provincialismo (auto)ghettizzante si smantella solo attraverso serietà, consapevolezza e determinazione. Qualità di cui Guarini abbonda, altro che megalomania.
"L'industria videoludica italiana non esiste principalmente per l'assenza di esportazione"
«L'industria videoludica italiana non esiste principalmente per l'assenza di esportazione", spiega Massimo. l'Italia, e non solo quella dei videogiochi ma anche del cinema, non esporta. Tendiamo a chiuderci in noi stessi e a cullarci nella nostra cultura, un po' come il Giappone. Ma mentre le ragazzine manga seminude o i mostriciattoli dagli occhi dolci possono avere un appeal internazionale istantaneo, non si può dire lo stesso del nostro Risorgimento. Il mondo ci ignora perché non parliamo una lingua diffusa e non perché ci sono poche software house. Siamo dialettali e locali, mentre i videogiochi, ancor più dei film, sono un prodotto intrinsecamente internazionale».
Lungi dalle sentenze, quel "non esistere" dell'industria nazionale si rifà a un fatto acclarato: sebbene lo Stivale sia fra i primi quattro/cinque paesi europei per consumo videoludico (con una spesa variabile fra i 900 milioni e il miliardo di euro annui nell'ultimo quinquennio), l'ultimo e unico censimento AESVI dei nostri sviluppatori (2012) rileva realtà sì giovani, ma anche rare e quasi per nulla strutturate. Soprattutto con fatturati superiori al milione di euro l'anno solo in 7 casi. Che sarebbero pochi anche ci si limitasse alla Repubblica di San Marino.
«Troppe persone si basano ancora sulla comoda formula: "se solo mi cagassero in Sony... la mia idea rivoluzionerebbe il mondo dei videogiochi. Se hai un'idea, ma non sai come e a chi presentarla con efficacia, questo mestiere non fa per te. Tutti hanno idee. Anzi, tutti hanno ottime idee. Non bastano. E non serve neppure ci sia qualcuno a metterti in contatto con chi potrebbe apprezzarle".
"Farcela significa proprio portare un'intuizione a diventare realtà; fatevi notare, prendete l'aereo e andate al Games Invest di Londra"
"Farcela significa proprio portare un'intuizione a diventare realtà; bene, fatevi notare, prendete l'aereo e andate al Games Invest di Londra. Si tiene ogni anno e serve proprio a connettere sviluppatori, publisher e talent scout; non è un evento segreto del KGB, è ben pubblicizzato. Se la vostra idea vale davvero qualcosa, sappiate che il lavoro di quelle persone è capirlo per poi aiutarvi a concretizzarla. Sembreranno parole dure, pronunciate da un arrogante che ha molti contatti e la fa facile, ma anche Murasaki Baby è nato seguendo questo iter».
Un iter curioso, vista l'origine del gioco e soprattutto una destinazione che potrebbe rivelarsi rischiosa: una fra le console meno fortunate e diffuse di Sony. «Sono convinto del contrario", replica Guarini, "e cioè che sia più semplice attirare l'attenzione in un mercato meno saturo, o persino di nicchia. Un gioco deve essere interessante a prescindere dalla piattaforma. Ecco perché credo molto in Murasaki Baby: è ispirato a un fatto estraneo ai videogiochi. Mi trovavo in treno per un viaggio di lavoro quando vidi una bambina aggrappata al filo di un palloncino rosso, mano nella mano con la madre. Pensai alla bellezza emozionale del prendere una bimba con un dito, tramite un touch screen".
"Qualche mese dopo diedi forma all'idea con un powerpoint di 7 slide ricco di immagini e disegni. Lo feci quasi per scherzo; ero sempre in viaggio in quel periodo e ricordo bene che creai la presentazione col mio portatile minuscolo su un tavolone di legno di una cucina d'altri tempi. Sei mesi dopo, quelle 7 slide cambiarono la mia vita».
"Dopo aver visto in tv film come War Games e Corto circuito, decisi che lavorare con i computer sarebbe stata la mia strada"
Una vita, a volerla ripercorrere, dedicata ai videogame non certo per un amore tardivo o improvvisato. «Negli anni '80, dopo aver visto in tv film come War Games e Corto circuito, decisi che lavorare con i computer sarebbe stata la mia strada, ma in realtà stavo solo iniziando a maturare l'ossessionante idea di dover creare qualcosa di mio. Arrivai a lavorare su Rayman proprio perché non ho mai ritenuto alcunché impossibile. Abbandonate la laurea in Informatica e la casa dei miei a 20 anni, volevo a tutti i costi entrare nella game industry e dopo aver inaspettatamente notato che Ubisoft stava aprendo uno studio di produzione a Milano, decisi di candidarmi. Quattro colloqui e un mese dopo divenni il primo game designer assunto come tale in Italia".
"Il primo progetto di cui dovetti occuparmi fu, appunto, Rayman Game Boy Color. Oltre alla responsabilità di dover creare un titolo tutto nuovo, non un semplice porting della versione PlayStation, ricordo l'enormità di limiti tecnici che ne caratterizzò game e level design. Dopotutto l'assenza di limitazioni è il peggior nemico della creatività. Nel 2005, stanco di lavorare su progetti basati sulla licenza Tom Clancy, emigrai invece in Canada. Ci arrivai come level designer, un passo indietro notevole rispetto al ruolo di lead game designer a Milano, ma volevo fare altro e sapevo che non avrei avuto un futuro se fossi rimasto in Italia".
"In quel periodo Ubisoft Montreal stava espandendo gli studi grazie anche a nuovi progetti che poco avrebbero avuto in comune con gli "shooter marroni" ai quali ero abituato. Mi proposi e in qualche mese diventai game director su Naruto: Rise of a Ninja, ma sempre consapevole che il mio obiettivo primario era quello di approdare un giorno in Giappone e lavorare nella patria dei videogiochi strani e creativi che mi piacciono tanto. Nel 2007, dopo tentativi incessanti, l'occasione giusta arrivò. E solo in Giappone capii cosa significhi davvero essere un director".
"Ho imparato a credere fortemente nella propria visione, ho sviluppato la consapevolezza della creatività senza limiti"
"Ho imparato a credere fortemente nella propria visione, ho sviluppato la consapevolezza della creatività senza limiti e ho gustato la libertà derivata da un immaginario surreale, grottesco e fortemente visivo. Lavorare con "rockstar" come Shinji Mikami e Akira Yamaoka mi ha reso umile, ma allo stesso tempo presuntuoso quanto basta per non aver paura di lanciarmi in quanto autore e creatore di opere originali. Ricordo molto bene quando andai da Goichi Suda e gli dissi che per riuscire a completare Shadow of the Damned entro i tempi avrei dovuto rivederne l'intera struttura e tagliare molti dei personaggi. Non mi rivolse la parola per due giorni".
"Ma comprese la gravità della situazione e mi diede carta bianca. Trascorsi i mesi successivi a riscrivere completamente gioco, gameplay e dialoghi, finché non arrivò il momento della verità e presentai il tutto a lui e a Mikami in un meeting a porte chiuse. Mi sentii sollevato solo quando entrambi iniziarono a ridere sguaiatamente e a darmi pacche sulle spalle. Questo per dire quanto sia necessaria una forza di volontà spropositata. Lavorare in Giappone, e con superstar del settore, è stata forse l'esperienza più traumatica e intensa della mia vita».
Non è quindi un caso che già dal titolo Murasaki Baby sembri il manifesto del sincretismo: un'espressione artistica tanto debitrice del primo Tim Burton, o di certe correnti di inizio '900 quanto di un gusto spiccatamente orientale. «Il gioco è stato ispirato da tutto ciò che vedo, ascolto e divoro. Lo ritengo molto personale e per questo fortemente caratterizzato. A livello visivo alcuni degli autori che senza dubbio hanno influenzato il mio immaginario sono Junji Ito, Hideshi Hino e persino Shintaro Kago. Di Burton ho sempre adorato i dipinti e i vari schizzi dei primi anni '80, ma sinceramente trovo ci siano più influenze surreali tipiche dell'espressionismo tedesco».
"Oggi si può fare qualunque cosa pressoché ovunque nel nostro settore. Basta volerlo e avere l'esperienza, le idee e i contatti giusti"
Rimane comunque sorprendente che in mezzo a tanti incroci internazionali si possa decidere di tornare in Italia. In questo senso Guarini e Ovosonico, laddove l'esperienza è comune quasi a tutti gli "egghead", come si chiamano fra loro, potrebbero rappresentare un contro esodo ante litteram: degli ex cervelli in fuga.
«Oggi si può fare qualunque cosa pressoché ovunque nel nostro settore. Basta volerlo e avere l'esperienza, le idee e i contatti giusti. Certo, non è facile. Non ho mai detto sia stata una passeggiata, nemmeno per me, ma le cose facili sono per chi non sogna. Ho voluto investire tutto quello che avevo e rischiare la mia reputazione per mettere in piedi Ovosonico. Questo, purtroppo, è ancora abbastanza contro tendenza in Italia. Sono in pochi a volersi mettere in gioco. Per fortuna i talenti non mancano e sono sicuro che molti altri, anche grazie al nostro piccolo successo, si sentiranno motivati a farlo».
Magari partendo proprio dalla villa varesina che evoca Resident Evil e per dare gli ultimi ritocchi alla bimba da prendere per mano.
«Il team di egghead", conclude Guarini, sta crescendo e siamo alla ricerca di alcuni profili quali level designer, senior game designer, character TD, animatori e programmatori. Anche perché, per quanto non sia possibile parlarne ora, abbiamo già molte idee circa il post Murasaki Baby. Chi volesse proporre la propria candidatura può leggere i dettagli su www.ovosonico.com/jobs».
Il che, ce lo auguriamo, potrebbe significare prendere parte a un miracolo italiano finalmente lontano da prurigini pecorecce imbarazzanti. Buona passeggiata.