1917 - recensione
Stringi i denti e vai.
Francia, aprile 1917, zona di trincee nel Nord-Ovest. Due giovani soldati ricevono l'incarico di trasmettere un ordine importantissimo a un altro battaglione, che sta avviandosi al punto di attacco.
Ogni altro mezzo di comunicazione è interrotto dalla violenza dei combattimenti ma l'attacco non si deve effettuare perché i tedeschi, ritirandosi verso la Linea Hindenburg, hanno organizzato una trappola in cui cadrebbero 1600 soldati, fra i quali anche il fratello di uno dei due messaggeri.
Sarebbe una strage. I due ragazzi partono di corsa, devono superare trincee, la terra di nessuno, altre aree in cui non si sa se e dove troveranno il nemico. Ce la faranno, arriveranno in tempo?
1917 è un film ambientato in tempo di guerra ma piacerà anche a chi non sia appassionato di questo genere, perché è un ansiogeno inseguimento al contrario, un film di agguati e pericoli immanenti, a tratti quasi un videogame stile Doom. Gli elementi di suspense si mischiano all'horror, con la corsa lungo le trincee, poi l'uscita su terreno scoperto, nel fango misto al sangue dei morti, i cadaveri putrefatti da schivare, le buche piene di acqua in cui galleggiano corpi decomposti, dove le uniche forme di vita sono mosche, corvi, ratti.
Poi giù nei cunicoli sotterranei scavati dai tedeschi e fuori di nuovo nella campagna ancora verde, che sembra resistere a tutta quella devastazione. Là dietro ogni muro, dentro ogni casa semidistrutta, si può nascondere un cecchino. E in più ci sono gli eventi canonici, gli imprevisti che costringono alla fuga (memorabile quella notturna fra le macerie di una cittadina, illuminata dai bagliori dei traccianti), e le cadute rovinose che non si sa mai come, dove terminano.
Tutto mentre dentro i protagonisti ticchetta un orologio invisibile, la consapevolezza che il mancato raggiungimento del proprio obiettivo si tradurrà in una strage di massa. Per cui anche i rarissimi attimi di quasi catatonica immobilità sono vissuti con angoscia.
Il risultato sono due ore che non si avvertono perché appassionano nell'incertezza della conclusione. La sceneggiatura, scritta dallo stesso Mendes insieme a Krysty Wilson-Cairns (Penny Dreadful), è stata ispirata dai racconti del nonno del regista e un'esperienza precisa diventa il pretesto di discorso più generale sull'orrore in cui l'umanità può precipitare da un momento all'altro, coinvolgendo nella follia di pochi le masse degli innocenti.
I due giovani protagonisti sono George MacKey, visto in Captain Fantastic e nella serie 11.22.63, e Dean-Charles Chapman (uno dei Baratheon di Game of Thrones) e intorno a loro, in brevi ruoli di contorno, ci sono nomi noti e notissimi, Andrew Scott, Colin Firth, Mark Strong, Benedict Cumberbatch, Richard Madden.
La particolarità del film, che fa molto parlare e che gli ha valso probabilmente i due Golden Globe come Miglior Film e Miglior Regia, è che è girato in quello che sembra un emozionante piano sequenza, con poche cesure ben inserite, con un effetto di estremo coinvolgimento (e che induce al paragone con un videogame in soggettiva).
Spesso sembra di essere su un drone (a volo d'uccello si sarebbe detto un tempo) che segue, affianca, precede, sovrasta, circonda i due protagonisti nel loro drammatico procedere, procurando allo spettatore una sensazione di immersione molto particolare. La gestione di questa scelta artistica è assai complessa e interessante da scoprire (solo il pressbook è un volumetto) e meriterebbe un discorso a parte.
Non è puro compiacimento tecnico, bensì una scelta artistica che contribuisce in modo sostanziale alla riuscita del film. All'interno di questa scelta, artefice di tanta bellezza è l'ormai mitico Roger Deakins come direttore della fotografia, mentre ad accompagnare l'azione ci sono le musiche di un altro nome storico, Thomas Newman, che ha composto una colonna sonora che sembra adeguarsi agli stati d'animo che via via mutano mentre mutano gli scenari. Eppure, nonostante tanti punti di forza, sulla locandina Sam Mandes viene indicato come autore di Skyfall e non di American Beauty, dettaglio indicativo dei tremori che agitano le compagnie di distribuzione.
Prima e Seconda Guerra Mondiale sono state assai ben trattate in molti film memorabili. 1917 si inserisce degnamente in un gruppo di titoli come "Niente di nuovo sul fronte occidentale", "Per il Re e per la Patria", "Orizzonti di gloria", "E Johnny prese il fucile," "La grande illusione", "Gli anni spezzati" e il nostro "Uomini contro", senza dimenticare la splendida serie tv "Band of Brothers".
Film come questi dovrebbero farci riflettere sull'incredibile fortuna che abbiamo di vivere in giorni in cui le telecomunicazioni coprono tutto il pianeta e anche dal mezzo di un oceano possiamo far sentire la nostra voce. Potremmo, dovremmo cosi comprendere di più quanto queste possibilità oggi vengano sprecate per cose irrilevanti o usate per scopi nefasti, se dalle baionette siamo passati ai droni.
E questo ci porta a riflettere su qualcosa di più sostanzioso, che è il bello dei film ben fatti. Nel regno animale siamo una razza davvero particolare, che dalla comparsa sul pianeta in avanti non ha mai smesso di cercare di sopraffarsi, di massacrarsi, di infliggersi sofferenze e lutti indicibili.
Perché mai crearci così, se davvero c'è stato un dio (leggere al riguardo il delizioso racconto di Dino Buzzati La creazione)? Se siamo fatti a Sua divina somiglianza, qualche interrogativo verrebbe naturale. Per cui, davvero, forse è meglio credere nel Big Bang.