Accessibilità dei videogiochi: le ali della libertà hanno la forma di un controller - articolo
“Dove posso arrivare? Non lo so, ma ci provo sempre.”
Giocare è una delle attività più belle che esistano. Persone o animali, uomini o donne, giovani o anziani, il gioco in ogni sua forma è sempre stato considerato un'attività naturale, indispensabile per la formazione dell'individuo, che fa socializzare, rilassare e anche apprendere. Esistono infiniti tipi di giochi, ognuno infinitamente declinato in base al luogo geografico, al contesto culturale e ai soggetti che lo praticano; esistono persone a cui non piacciono certi giochi, ma non esistono persone a cui non piaccia giocare. Che si tratti di un castello di sabbia, un'altalena, delle freccette, un mazzo di carte, matite colorate o orde di zombie da fare a pezzi con una motosega, in qualunque periodo storico o angolo del mondo ci si trovi, il gioco è sempre stato uno, se non il migliore mezzo a disposizione dell'umanità per stare meglio con se stessi e con gli altri.
In questi ultimi anni abbiamo vissuto una diffusione capillare del medium videoludico in praticamente ogni paese sviluppato: quello che un tempo era considerato un passatempo di nicchia, di una categoria di soggetti con la tendenza a isolarsi "dalla vita vera", è ora un vero e proprio fenomeno culturale, spesso anche transmediale... Oltre che, ovviamente, una moda facile da strumentalizzare per alimentare la macchina economica, nonché un mercato giovane, sul quale è "comodo" investire capitale.
Con la figura del nerd ormai in larga parte sdoganata e anzi, talvolta persino presa come ispirazione per capi d'abbigliamento e accessori trendy, con il videogioco ormai non più alieno al sentire comune e al quotidiano delle famiglie (nonostante non manchino atteggiamenti ostili, prevenuti e polverosi e sacche di resistenza quasi impossibili da sgonfiare, anche e soprattutto nel nostro Bel Paese) ecco arrivare le "grandi responsabilità" nominata dal caro, vecchio zio Ben.
Ciò che un tempo era una minoranza è ora diventata una massa, e ogni massa ha intrinsecamente al suo interno delle minoranze. Stiamo parlando dei videogiocatori con disabilità. Questi soggetti condividono le motivazioni di qualunque altra persona per desiderare una partita a un videogame, più una: la possibilità di vivere un'esperienza che li faccia sentire uguali agli altri o, perché no, persino migliori, senza l'inquinamento di sguardi incuriositi e carichi di pietà, accondiscendenza o, peggio ancora, paura e disprezzo.
In questo periodo storico, il tema dell'inclusività è sempre sulla bocca di tutti, che si tratti del colore della pelle o dell'orientamento sessuale. Tuttavia, non bisogna dimenticare quella fetta sociale altrettanto discriminata, ma con meno mezzi a disposizione per farsi sentire pubblicamente. Il motivo è presto detto: oltre alle ovvie difficoltà fisiologiche per mettere in atto e portare avanti delle manifestazioni di qualsivoglia genere, le persone affette da disabilità vivono la propria condizione ciascuna in modo diverso, il che rende molto difficile una coesione sotto un'unica "bandiera".
Nell'ambiente videoludico, le disabilità sono state spesso trattate come quello zio scapolo e semisconosciuto che appare alla tavolata di famiglia alla vigilia di Natale: crea imbarazzo nel resto degli ospiti quando prende la parola e per la maniera in cui mangia, ma va per forza invitato, per cui al suo arrivo si scambia giusto il minimo necessario di convenevoli, lo si mette a sedere nell'angolo e si cerca di passare il resto della serata senza dargli troppa confidenza.
La realtà dei fatti, come al solito, è meno scontata di quanto siamo spinti a credere prima d'informarci ed è solo un bene che The Last of Us Parte II, ultima fatica di Naughty Dog, abbia attirato l'attenzione sulla questione grazie alle sue incredibili feature di accessibilità: parliamo di oltre sessanta opzioni disponibili fin dal lancio, che permettono di giocare e completare il gioco nonostante la presenza di disabilità visive, uditive e/o motorie. Ad esempio, è possibile rimappare completamente i tasti del controller per giocare con una mano sola, attivare feedback visivi per permettere di percepire la direzione di un pericolo anche senza ascoltare i suoni ambientali, o utilizzare la sintesi vocale e la modalità ad alto contrasto nel caso di problemi alla vista.
Quest'ultima condizione è proprio quella del content creator Steve Saylor, giovane uomo affetto da disturbi visivi tali da renderlo legalmente cieco. La condizione di cecità, in questo caso, non porta a una totale assenza di visione, dato che Saylor è affetto da nistagmo oculare e riesce quindi, pur se a fatica, a distinguere forme, colori e movimenti. Nonostante gestisca un canale YouTube dalle dimensioni modeste, la sua figura è giunta alla ribalta sul web proprio all'arrivo di The Last of Us Parte II sul mercato: Saylor ha infatti discusso, in compagnia di Courtney Craven di Can I Play That? le feature di accessibilità del gioco, definendolo "il gioco più accessibile mai creato", tanto per la quantità d'impostazioni presenti, quanto per la semplicità con la quale è possibile attivarle e fruirne.
Recentemente, la stessa Naughty Dog ha partecipato a un'intervista con il sito sopracitato, e Mattew Gallant (Lead Systems Designer) ha espresso la piena disponibilità della software house a partecipare in futuro a collaborazioni con altri studi e sviluppatori, al fine d'introdurre sempre più e sempre meglio le opzioni d'accessibilità all'interno dei videogiochi; è evidente che Naughty Dog abbia investito notevoli tempo e risorse per la creazione di un sistema così vasto e modulabile di feature, ed è solo che lodevole la sua intenzione di non voler tenere per sé le proprie conoscenze e i propri risultati, frutto di studi, ricerche e investimenti.
I malpensanti potrebbero far notare come spesso il ritorno d'immagine abbia un valore pari, se non persino superiore a quello puramente economico (e il fenomeno del review bombing esiste proprio per colpire le aziende sul fronte delle pubbliche relazioni e del marketing), ma a prescindere da quanto siano nobili le intenzioni dietro all'opera (e ricordiamo che buona parte dei capolavori della storia dell'uomo sono frutto di commissioni e non di puro, illibato spirito creativo) è innegabile che il risultato sia notevole, un prezioso esempio per gli sviluppatori e i giocatori con disabilità presenti e futuri.
Va da sé che The Last of Us Parte II non sia l'unico titolo del panorama moderno ad aver preso in considerazione i giocatori diversamente abili. Bisogna però prima di tutto fare delle precisazioni e sfatare alcuni miti su videogiochi e videogiocatori con disabilità. Il primo e più comune errore commesso dal grande pubblico è quello di ritenere i giocatori diversabili "numericamente irrilevanti": ci troviamo, questo è innegabile, davanti a una minoranza rispetto al sempre crescente numero di appassionati di videogiochi in tutto il mondo; tuttavia, l'organizzazione AbleGamers ha stimato un totale di circa 33 milioni di videogiocatori con disabilità nel corso del 2019 e considerando il solo pubblico statunitense.
Numeri che nemmeno prendono in considerazione quella fetta di pubblico medicalmente non riconoscibile come affetta da disturbi psicofisici, ma che trae comunque giovamento dalla maggiore accessibilità nei videogiochi: dalla pura e semplice dimensione del font di gioco, proseguendo con la personalizzazione degli input (l'esempio più banale potrebbe essere quello di un mancino in difficoltà davanti a mouse e tastiera impostati per un uso destrorso), arrivando infine alla regolazione di luminosità, campo visivo, palette cromatiche, livelli audio e, perché no, persino la velocità del gioco.
Un altro triste luogo comune sul binomio disabilità e videogiochi riguarda i possibili rischi incorsi da soggetti con problematiche psicofisiche preesistenti. Dando per scontato che qualunque eccesso, qualunque sia il contesto, può risultare dannoso anche per persone in perfetto stato di salute, non ci sono prove concrete che un soggetto disabile possa risultare a rischio di fronte a un videogioco. Come sempre, ogni caso è a sé stante e il buonsenso è la chiave per prevenire gran parte dei guai, ma anzi, diverse volte il videogioco ha permesso una riduzione delle terapie farmaceutiche antidolorifiche, proprio grazie al suo intenso effetto distraente sulle sofferenze fisiche e psicologiche, siano esse croniche o acute.
La sensazione di controllo della situazione e il diverso modo d'approcciare i problemi interni al mondo digitale, inoltre, possono essere un aiuto prezioso anche nei soggetti affetti da autismo (il discorso resta valido anche per persone con problematiche che non rientrano nello spettro autistico) proprio grazie al livello di coinvolgimento, apprendimento e appagamento raggiungibile all'interno di un ambiente virtuale, che limita e permette di regolare gli elementi di disturbo, le distrazioni o, semplicemente, i pericoli. Anche le sole, potenziali applicazioni di software in realtà virtuale potrebbero far vivere esperienze davvero preziose a persone di ogni età e con diversi tipi di disabilità, stimolandole ad apprendere, mettersi in gioco e relazionarsi con altri giocatori, il tutto in uno spazio sicuro e controllato.
Altro, frequente errore è l'associare la qualità di un videogioco alla sua complessità di comprensione e svolgimento, il che porta gli "hardcore gamer" a disprezzare la presenza di tutorial e selettori di difficoltà, che andrebbero a "svilire" il valore del titolo. Celeste, il platform indipendente di Matt Makes Games, è un fulgido esempio di titolo hardcore, ma i cui sviluppatori non si sono certo vergognati d'arricchire con una Modalità Assistita abbastanza modulabile da poter essere considerata più una curva d'apprendimento personalizzabile che un vero e proprio "trucco" come, ad esempio, la guida assistita di Mario Kart 8, che con la sua sterzata automatica non modifica o ribilancia una meccanica del titolo, ma la rimuove del tutto. Celeste permette di rallentare la velocità di gioco, diventare invincibile o avere stamina infinita e, pur consigliando di giocare la prima partita senza alcuna assistenza, non manca mai di rispetto al giocatore che ha scelto di utilizzarla.
Il fatto che "un tempo le cose erano più difficili" non rende necessariamente la presenza di più opzioni, di più possibilità di scelta, come un'automatica dichiarazione di debolezza... ed è curioso osservare come questo discorso sia sempre fonte di accese diatribe nelle community videoludiche, le prime a fruire delle comodità che il progresso tecnologico ci ha fornito, dalle sedie ergonomiche regolabili e gli schermi piatti dall'illuminazione intelligente, ai controller wireless senza metri di cavi annodati e i minifrigo con le bevande energetiche e gli snack unti sempre a portata di mano.
In questi casi spesso manca l'empatia, lo sforzo d'immedesimarsi negli altri, in chi è meno fortunato: un videogioco "difficile" può risultare accessibile anche senza diventar facile, semplicemente permettendo al maggior numero possibile di persone di godere della stessa, difficile esperienza in condizioni di parità, condizioni che devono quindi essere pensate tenendo in conto le difficoltà psicofisiche di chi si trova davanti allo schermo. Doom Eternal è un altro recente esempio di accessibilità all'interno di un titolo comunemente considerato hardcore: ampia scelta di livelli di difficoltà, differenti mappature preimpostate dei comandi (più la possibilità di crearne una personalizzata), regolazione di field of view e motion blur, ma anche e soprattutto diversi tipi di rendering e colore dell'interfaccia di gioco, distinti in base ai principali tipi di cecità cromatica: protanopia, deuteranopia o tritanopia. Ovviamente, è tutt'altro che semplice mantenere bilanciata l'esperienza dovendo considerare tutte le possibili variabili, dettate dalle diverse forme di disabilità: è proprio questo il motivo per cui l'accessibilità non deve limitarsi a semplificare o rimuovere intere meccaniche di gioco, dato che questo equivale a dimenticare il problema, piuttosto che affrontarlo. Tali feature vanno quindi pensate a monte del processo produttivo, implementate nel corso della programmazione come parte integrante del gioco e non come semplici cheat vecchia scuola, il che non insegna né aiuta, anzi, sminuisce e per certi versi offende i videogiocatori disabili, "obbligati" a giocare una versione del gioco che li solleva di peso e li porta dall'altra parte della strada, invece di fornire un mezzo adatto per attraversarla da soli.
Nel corso degli anni, i videogiochi sono diventati via via più complessi, e questo rende - potenzialmente - sempre più difficile l'inserimento di opzioni d'accessibilità che comprendano i sempre più numerosi elementi di gioco. Programmare tutto questo richiede tempo, ricerca, denaro, oltre a deviare parte del flusso produttivo verso elementi non indispensabili al buon funzionamento del software.
È quindi comprensibile il timore di ambo le parti, pubblico e sviluppatori, che dare questa attenzione all'accessibilità di un videogioco potrebbe minarne il contenuto in termini di quantità e qualità, longevità e polishing; eppure, l'unica soluzione al problema è quello di rendere gli elementi di accessibilità di un titolo parte integrante di ogni progetto, non qualcosa di opzionale, che vada a pesare su una pipeline di lavoro in cui non erano stati conteggiati fin da subito.
Così come la moderna, civile urbanistica deve sempre tener conto di quella fetta sociale meno fortunata e bisognosa di mezzi di trasporto, edifici e luoghi pubblici adatti a numerose e varie esigenze fisiche e mediche, allo stesso modo e anzi, a maggior ragione, un bene secondario e praticamente di lusso come il videogioco dovrebbe farsi vanto delle proprie feature di accessibilità, proprio per dimostrare la maturità ormai raggiunta da questo medium in pochi decenni.
SpecialEffect è un team inglese, d'istanza a Oxfordshire, fondato nel 2007 da Mick Monegan e composto da esperti in terapie e tecnologie da gaming adatte alle persone affette da disabilità; oltre a diverse periferiche input opportunamente personalizzate per essere impiegate da soggetti con i più svariati tipi d'impedimenti, uno dei loro recenti e più popolari successi è stato EyeMine, un software completamente gratuito e compatibile con la maggior parte degli eye-tracker moderni, anche quelli più economici. L'utilizzo di questo programma consente di giocare al celebre videogioco Minecraft con il solo movimento degli occhi, e non è certo necessario evidenziare quanto una simile applicazione del monitoraggio oculare potrebbe aprire la strada, in futuro, a un modo di videogiocare rivoluzionario rispetto a ciò a cui siamo abituati, con tutte le sue potenziali applicazioni nella tecnologia VR e, ovviamente, nel campo del gaming accessibile.
Per encomiabile, nobile ed eccezionale sia l'impegno di questi team indipendenti, vale la pena menzionare almeno due delle iniziative portate avanti dai big dell'industria videoludica. Il primo è l'Xbox Adaptive Controller di Microsoft, periferica che punta a rendere accessibili i videogiochi a tutti coloro che sono affetti da mobilità limitata e trovano difficoltà a impugnare ed esercitare pressioni specifiche sui tasti di un controller tradizionale: si tratta di argomenti poco discussi comunemente, ma è importante ricordare che esistono persone con le stesse nostre passioni e che per loro sfortuna potrebbero trovar difficile, se non impossibile, premere ripetutamente un pulsante o ruotare velocemente una levetta analogica, durante il più classico e (per noi) banale Quick Time Event.
L'idea dietro l'Adaptive Controller è nulla che non sia già stato pensato e realizzato in passato in maniere più caserecce (come il caso del padre che s'ingegnò per permettere alla figlia di giocare a Zelda: Breath of the Wild) o tramite progetti indipendenti come quelli dei già citati SpecialEffect, ma che acquista un enorme peso proprio per la sua ufficialità e la pubblicità che è stata fatta su di esso: il problema dell'accessibilità non deve essere più la polvere sotto il tappeto, il problema d'accantonare fingendo che non esista o non sia così importante poiché scomodo e costoso, ma una vera e propria campagna di sensibilizzazione da portare avanti a testa e voce alta, per offrire alle persone meno fortunate le stesse opportunità di tutti gli altri per essere felici.
Altra interessante opzione a disposizione dei videogiocatori Microsoft è la Modalità Copilota presente su Xbox One. Attivando questa modalità, la console riconosce pieno potere a due controller contemporaneamente, rendendo possibile un'assistenza completa e costante da parte di un secondo giocatore. Chiaramente questa modalità può tornare utile anche nel caso di soggetti molto giovani o inesperti, ma è proprio questo il punto: il concetto di accessibilità non deve essere relegato ai confini della disabilità (che ne rimane comunque il punto focale), ma puntare alla massima inclusività possibile all'interno del medium videoludico, il tutto, come già detto, non per rendere "il gioco più facile", ma per offrire le stesse chance di sfida e divertimento a un numero sempre più grande di persone.
Menzione d'onore anche per Electronic Arts, altra azienda che si prodiga nella diffusione dell'accessibilità e che per questo ha aperto il proprio portale ufficiale sull'argomento, costantemente aggiornato, in cui è possibile consultare tutte le opzioni di accessibilità disponibili nel suo parco titoli, consigli su come fruire dei giochi in caso si abbiano disabilità e un servizio clienti a disposizione per segnalare difficoltà o bug.
La lotta per l'accessibilità dei videogiochi è ben lontana dalla sua conclusione, e l'assenza di una regolamentazione univoca e globalizzata di certo non è d'aiuto: il primo obiettivo da raggiungere per una capillare diffusione delle feature di accessibilità nell'industria del gaming è, sopra ogni cosa, la presa di coscienza del problema, sia da parte del pubblico che da parte degli sviluppatori piccoli e grandi; pregiudizi e stereotipi sono ancora numerosi, in buona parte causati da disinteresse e ignoranza sull'argomento.
Non resta che sperare che l'impegno e l'esempio di Naughty Dog con il recente The Last of Us Parte II diano inizio a un circolo virtuoso e calamitante, una vera e propria moda dell'industry, che per una volta potrà puntare a unire e includere, piuttosto che etichettare e isolare.