American Gigolo S1 Recensione, non è tutto sesso quello che luccica
Il peccato merita sempre un castigo.
Quella del “what if” è una formula narrativa sempre ricca di spunti interessanti, di riflessioni esistenziali stimolanti, di divertenti digressioni su eventi ben noti. In questo caso ci troviamo davanti ad un what if che riguarda un personaggio entrato nell’immaginario collettivo, grazie a un film e all’interpretazione di un attore che, da allora, ha avuto una carriera in costante crescita. Parliamo di American Gigolo e di Julian Kay, il distaccato professionista del sesso che nel 1980 aveva la faccia e il corpo dell’allora trentunenne Richard Gere.
Ora la storia, che era stata scritta dal grande moralista Paul Schrader, torna in forma di serie tv per mano di David Hollader, uno degli scrittori di Ray Donovan, con Jerry Bruckheimer alla produzione, sempre garanzia di prodotti commercialmente validi anche se di non eccessiva finezza. Il what if che dà lo spunto alla storia immagina che Julian sia stato incastrato con successo, trovandosi a pagare per un delitto che non ha commesso, senza che nessuna bella donna innamorata si sacrifichi per salvarlo. E lui si fa 15 anni di galera, convinto a confessare da una poliziotta un po’ troppo prevenuta.
La donna (Rosie O’Donnell) scopre infatti casualmente il vero colpevole dell’assassinio della giovane donna e che quindi Julian è in effetti innocente, facendolo quindi scarcerare. La notizia lo coglie totalmente impreparato, ormai rassegnato a un destino ingiusto, mentre passa le sue giornate ormai ben integrato nella sua prigione. Si sa che quello che non ammazza, fortifica e quindi, una volta uscito, e pur in condizioni finanziarie drammatiche, Julian non è più il frivolo bel ragazzo di prima ma un uomo prudente, riflessivo, controllato, ben deciso a riprendersi almeno qualcosa di quello che era suo. A partire dalla scoperta di cosa sia successo veramente e come e chi (e perché) lo ha incastrato.
Ritrova vecchi amici, su cui rivedere il giudizio, ne trova qualcuno nuovo e indubbiamente più sincero, soprattutto cerca la sua amata Michelle, rimasta infelicemente sposata con il ricco e algido uomo d’affari con il quale ha pure avuto un figlio. Incombe il tema delle molestie subite da Julian fin da ragazzino e su quello che era stato il suo destino, finito a lavorare fin da giovanissimo in un’organizzazione di escort, abituato fin da piccolo allo scambio sesso/soldi.
Sui titoli di testa risuona la classica Call Me di Blondie, ma a sfrecciare sulla Pacific Coast Highway di LA non è una Porsche bensì un’argentea Jaguar E-Type e il naso rotto su cui sono appoggiati gli occhiali da sole di marca ci fa subito riconoscere Jon Bernthal, che rappresenta la vera novità, scelta voluta proprio per staccarsi completamente dall’originale scegliendo un tipo del tutto diverso, con una fisicità più proletaria e una simpatia che all’algido e bellissimo Richard mancava.
Rosie O’Donnell fa la poliziotta omosessuale un po’ un cliché, sulla quale si costruisce una storia laterale che in fondo non interessa molto se non per quanto influenzerà il suo atteggiamento nei confronti di Julian. Gretchen Mol è l’amata, che tanto amore in qualche modo se lo deve meritare, nonostante un comportamento davvero immaturo. Lizzie Brocheré è la nuova maitresse, anche lei in fondo una vittima dell’ambiente, ancora più distorta della zia da cui aveva ereditato il peccaminoso impero.
Ci sono poi altre facce note nei ruoli di contorno: Leland Orser è il marito, uomo d’affari potentissimo ma incapace di scegliersi collaboratori perbene. Segnaliamo la presenza di Mark Mahoney, il celeberrimo “tatuatore di divi”, qui in un piccolo ruolo. Come piccola è la parte in cui ritroviamo il mitico M. Emmet Walsh, classe 1935. Musiche blasonate di Marcelo Zarvos, uno degli episodi è diretto da Gregg Araki, regista consono con l’ambiente. Julian vive a Venice e si muove lungo i luoghi del glamour di una delle zone più ricche del mondo, in cui si vedono un paio di ville da infarto. Il tono è più greve, la depravazione dell’ambiente è più marcata, così come la componente thriller che qui fa da filo conduttore, mentre nel film segnava giusto il percorso di redenzione del protagonista che, risalendo le fila del complotto, comprendeva la ferocia e l’ipocrisia del mondo cui credeva di far parte e in cui invece era visto solo come un pezzo di carne da usare, e su cui lucrare.
Per quanto il comportamento di Michelle in questo reboot sia a tratti davvero improbabile e irritante, è descritto in modo efficace il rapporto che lega lei e Julian, dalla sua genesi in poi, grazie ad alcuni momenti ben diretti e specialmente grazie all’interpretazione di Bernthal che riesce a renderlo plausibile. Uno dei motivi per cui guardare la serie è infatti la sua interpretazione, che riesce a dare una diversa dimensione al personaggio, attribuendogli una dignità e consapevolezza maggiore di quanto non avesse il giovane e fatuo Richard Gere nel film.
La serie sta uscendo sul nuovo canale in streaming Paramount+ e non essendoci più al timone Paul Schrader, ci siamo trovati davanti a una narrazione più tradizionale e realistica. Non abbiamo mai del tutto condiviso i suoi finali edificanti da American Gigolo a Lo Spacciatore, per arrivare con la stessa concezione tanti anni dopo nel film Il Collezionista di Carte (tre film con lo stesso finale).
Ma si sa che i soldi guadagnati troppo facilmente sono i soldi del diavolo e per lo stesso Julian è inevitabile provare un senso di colpa per aver vissuto in un ambiente tanto corrotto. Viene da dire: ce ne fossero di più come Julian, capaci di provare il sentimento della vergogna! Che in fondo il suo è un mestiere ben più onesto di tanti che sappiamo…
Se un seme viene piantato in terra avvelenata, la pianta crescerà malata. Ma la colpa non sarà dell’innocente seme. Così è con le persone: esiste la possibilità di scegliere, però, e la chiamano libero arbitrio. O almeno così si favoleggia, perché per tanti quella libertà è solo l’illusione di una promessa.