American Horror Stories - recensione
Anche con la tecnologia c'è sempre posto per spettri e demoni, purché cattivissimi.
Nel 2011 Ryan Murphy e Brad Falchuk si sono inventati la serie tv antologica American Horror Story, proseguita per 10 premiatissime stagioni, ciascuna dal soggetto diverso, di interesse altalenante (ciascuno avrà la sua preferita).
La serie è stata contraddistinta da atrocità perpetrate con grande senso estetico, una messa in scena di qualità altissima, con percepibile cura formale nelle scenografie e nei costumi, una totale mancanza di pietà nei confronti dei comportamenti dei vari protagonisti oltre che da un cast sempre al top. Nel 2016 è arrivato il primo spin-off, American Crime Story, che trattava casi di reale cronaca nera.
Arriva oggi il secondo, American Horror Stories (al plurale), serie all'interno dei cui sette episodi ci sono storie tutte diverse. Solo il primo e il secondo episodio hanno gli stessi protagonisti e sono ambientati nella famosa Murder House, dove riappare l'inquietante tuta di latex nero, quella del sanguinario Rubber Man, sulla quale sono stati modulati i suggestivi titoli di testa (inquietanti pure loro e molto chic). Si tratta di un sadico divertissement sul tema della casa infestata, dove gli argomenti che sembrano più di peso vengono spiritosamente stravolti nel secondo episodio più sarcastico (compresa la presa in giro della coppia gay, ma Murphy può). Matt Bomer e Gavin Creel sono i due papà della protagonista dalle preoccupanti tendenze, che è Sierra McCormick.
In un altro episodio, Drive In, un film maledetto riesce a tramutare chi lo guarda in una specie di zombie famelico, con una (anche qui) spiritosa presa in giro delle smanie di certi registi (nel cast la veterana Adrienne Barbeau). In The Naughty List quattro pseudo-influencer, dei veri deficienti rovinati dalla vita che fanno, tutta esposizione mediatica, like e conseguenti sponsor, affronteranno le conseguenze delle proprie azioni.
Divertito cameo di Danny Trejo. In Ba'al faremo conoscenza di una coppia male assortita in vana ricerca di un figlio, che sembra prendere una piega più thriller per concludersi in un grottesco horror. Feral è l'episodio più splatter e cattivo, una giovane coppia con figlioletto decide di passare un week end in mezzo ai boschi, per ritrovare il contatto con la natura. Succederanno cose atroci, con l'ausilio di truccature macabre e inquietanti (e un sottofondo di critica sociale).
Nell'episodio conclusivo, torniamo nella Murder House, dove arriva l'ennesima coppia in cerca di emozioni, che pensa di gestire l'esperienza come una vista in un'attrazione da luna park, ritrovando tutti i protagonisti dei precedenti incubi. Ma la storia prende poi una piega ben diversa, tirando in ballo un altro media importante come i videogames. Nel cast, torna Dylan McDermott.
Ogni episodio ha l'onore di propri mirati titoli di testa, a dimostrare che non ci sono problemi di budget. Ottimo anche qui il cast nel suo complesso, con alcune facce note ma molti altri promettenti anche se meno conosciuti, alcuni erano già comparsi nelle altre serie, alcuni li ritroviamo in più di un episodio.
Abbandonando i trattamenti a tema delle precedenti serie (ogni stagione un argomento e un'ambientazione diversa), Murphy e Falchuk si divertono a inventarsi variazioni sul tema abbastanza spassose (se ci è permesso usare questo aggettivo in ambito horror), qualcuna più prevedibile, qualcuna meno, per una serie godibile anche se non all'altezza delle precedenti, nel complesso più leggera. Almeno per il nostro stomaco abituato ormai professionalmente a sapori fortissimi. Ma come la commozione, anche lo spavento o il senso dell'orrore sono assai soggettivi.