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“Appartengo a una generazione perduta” - editoriale

Il suicidio di Michele, l'illusione dell'american dream: perché la vita non è come un videogioco?

Ci pensavo da mesi, a questo editoriale, ma mi mancava la scintilla per iniziarlo. Un po' perché pezzi così non ne scrivevo dai tempi di The Games Machine, e un po' perché toccare certi argomenti significa aprire una parte di sé, una porta su di sé, a persone che non si conoscono.

La scintilla è infine scoccata con l'ultima lettera di Michele, il trentenne che qualche giorno fa s'è tolto la vita dopo un'esistenza di precariato. In essa c'è un passaggio che ho trovato indicativo: "Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati". Ed è da qui che vorrei partire.

Ho una figlia di otto anni e nel crescerla mi sto trovando di fronte agli inevitabili dilemmi di un genitore. Sta entrando in un'età in cui, come mostravano i Pink Floyd in The Wall, la società la sta incamminando verso quel tritacarne da cui uscirà l'impasto necessario a costruire i mattoni della società. E da cui, finora, sono sempre riuscito a fare un passo a lato.

Lo farà dandole falsi messaggi, facendole credere cose che non saranno esattamente quelle. Ma io sono un adulto e l'ho già scoperto. Lei, che è una bambina, ci crede. E il dubbio è se lasciarglielo credere o meno. Se aspettare che scopra per conto suo che il mondo non è quello che le stanno insegnando, ma farle godere l'infanzia. O se dirle tutto e subito con schiettezza, con onestà. Per non sentirsi rinfacciare, un giorno, di averle mentito.

Ho scelto la seconda strada. Le sto dicendo che deve studiare e andare bene a scuola perché così, forse, avrà una chance nella vita. Ma non è detto. Le sto dicendo che ormai chiedono la laurea per vendere scarpe nei centri commerciali e che dare il 100%, sempre e comunque, non comporta la certezza del successo. Vuol dire solo avere qualche chance in più.

Quando in Piazza XXIV Maggio, nel centro di Milano, le mostro le file di senzatetto accampati sotto i porticati. Quando passando davanti a una mensa per i poveri le mostro le persone in fila per un pasto caldo, sempre più spesso borghesi decaduti, le faccio presente che quelli che vede lì non hanno necessariamente giocato male la loro carte. Possono essere stati solo degli sfortunati, come Michele, i cui sforzi non hanno ottenuto risultati.

"Viviamo nel grande inganno dell'american dream, che ti dice che se t'impegni veramente nella vita ce la farai"

La storia della mia famiglia, di mia nonna, che s'è dovuta reinventare una vita a quarant'anni, la madre e la figlia a carico, senza i soldi per mangiare, la nobiltà sepolta sotto le macerie della Seconda Guerra Mondiale, è lì a ricordarmi che non si deve mai abbassare la guardia. Che non si può mai dire.

Ma viviamo nella società del grande inganno. Dell'american dream che ti dice che se t'impegni veramente nella vita ce la farai. E che di converso, se poi nella vita non ce l'hai fatta, beh, è perché non ti sei impegnato abbastanza. Una bugia che ha ucciso, sta uccidendo e ucciderà intere generazioni. Abbagliate da quei pochi che effettivamente ce l'hanno fatta, dimentiche di coloro che ci provano ogni giorno, tutta la vita, senza una possibilità di successo.

Ci concentriamo solo su quello che vince il biglietto della lotteria, e facciamo finta che non esistano tutti gli altri che quel biglietto l'hanno comprato e hanno perso. Ricordiamo lo scrittore di successo e dimentichiamo Emilio Salgari, che sognava avventure meravigliose, mondi che sapeva non avrebbe visto mai.

E allora vorrei che la vita fosse come i videogiochi, che avesse l'onestà dei Dark Souls. Un luogo dalle tinte crepuscolari, solo sporadicamente rischiarato dal sole. Ma almeno te lo dicono dall'inizio. Popolato di mostri, irto di pericoli. Ma anche questo lo capisci subito. Dove però nessun obiettivo è irraggiungibile, nessun problema insormontabile.

Dove basta grindare per trasformare in possibile l'impossibile. Dove l'impegno e la dedizione conducono alla certezza del risultato, e pazienza se qualcuno vestito solo di stracci arriva prima di noi al boss finale. Ce la faremo anche noi, ci metteremo solo più tempo.

Ma ormai lo sappiamo, il mondo non è così. Il mondo è un luogo misterioso dove anche i cavalieri protetti da armature invincibili possono essere sconfitti. Dove scudi possenti possono soccombere agli inaspettati affondi della vita. Dove, come dice Frankie Hi-Nrg, gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili.

Questo insegnerò a mia figlia. Per evitare che come Michele possa subire il contraccolpo del reality check, l'urto col mondo che l'aspetta là fuori, e dal quale un giorno non potrò più proteggerla. Per farle capire che la vita non è un videogioco, anche se vorrei tanto che lo fosse.

Avatar di Stefano Silvestri
Stefano Silvestri: Il suo passato è costellato di tutto ciò che è stato giocabile negli ultimi 40 anni. Dal ’95 a oggi riesce a fare della sua passione un mestiere, non senza una grande ostinazione e un pizzico di incoscienza.

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