La critica di videogiochi ha un problema - editoriale
Per chi lavora da anni - o decenni - nel mondo dei VG, è diventato impossibile interpretare correttamente i gusti del pubblico?
Leggo recensioni di videogiochi da circa trent'anni, e le scrivo da quasi venti. In poche parole, sono il prototipo perfetto del "giornalista di videogiochi professionista". Nel corso delle mie ossessive riflessioni notturne, che spesso non sfociano in nulla e a volte producono invece editoriali come quello che state leggendo adesso, sempre più spesso finisco per pormi una domanda: per chi sto scrivendo, a chi mi sto rivolgendo esattamente, quando metto nero su bianco i miei articoli?
Un tempo non avevo dubbi a riguardo: appena iniziata la mia carriera di giornalista specializzato, fresco dei miei vent'anni e con l'hype a mille per una PlayStation 2 che presto sarebbe finalmente arrivata sul mercato, ogni volta che aprivo Word mi accingevo a dialogare con qualcuno che era esattamente come me: un gamer entusiasta, orgogliosamente appassionato di quello che era un medium ancora tutto sommato poco diffuso e conosciuto tra il grande pubblico, affamato di novità tecnologiche e di nuove esperienze di gameplay.
Oggi, all'approssimarsi dei 40 anni e con mille articoli, copertine, interviste, press tour, conferenze stampa ed E3 alle spalle, non ne sono più così sicuro. Innanzi tutto, non credo di avere più la stessa capacità di risposta emozionale di un teenager al tema dei videogiochi, ma di questo vi ho già parlato (e si tratta, tutto sommato, di un fenomeno abbastanza normale).
La domanda che mi perseguita maggiormente, però, è: scrivendo per un target di pubblico che spesso ha un'età ed un bagaglio di esperienza completamente diversi dai miei, ho ancora la possibilità di interpretare correttamente i suoi gusti, desideri ed esigenze?
Noi giornalisti che abbiamo cominciato con Pong o al più tardi con Super Mario Bros, sperimentando più o meno tutto quello che il mondo videoludico ha avuto da offrire nel corso dell'ultimo trentennio, macinando centinaia di platform, sparatutto, action, fps e gdr, incontrando le stesse meccaniche e soluzioni di gameplay fino alla nausea e ormai alla disperata ricerca di qualcosa di veramente "nuovo", sappiamo relazionarci con chi esce oggi a comprare il suo primo Call of Duty e non vede l'ora di scoprire il multiplayer online con i suoi amici?
Questo non vuol dire, ovviamente, che tutti i lettori di Eurogamer debbano necessariamente essere imberbi pargoli (so bene che, nelle pause che la vita concede da mogli, figli, lavoro e quant'altro, ci sono ancora tanti veterani che un'occhiata ad EG.it la danno volentieri), ma è indiscutibile che una grossa fetta del nostro settore sia composta, come è giusto e naturale, da pre e post-adolescenti, molti dei quali magari si affacciano adesso alle loro prime esperienze interattive.
È forse per questo che mi capita di notare, sempre più spesso, una sorta di "disconnessione" tra i gusti del pubblico e quelli dell'editoria di videogiochi che potremmo definire "ufficiale". Ci ho fatto caso, per esempio, ai tempi dell'uscita di Mad Max, titolare di un poco lusinghiero 69 su Metacritic e invece acclamato con un 90% di recensioni positive su Steam. I giornalisti che ne hanno criticato la natura ripetitiva e lo stile dei combattimenti, troppo simile a quanto già visto nei recenti titoli di Batman, hanno davvero svolto un servizio corretto nei confronti di quella grossa fascia di pubblico che ama le mille quest secondarie (perché non le considera affatto una perdita di tempo, ma anzi un valore aggiunto) e non avendo giocato tutti e 4 i capitoli di Batman non è affatto satura di quella specifica meccanica degli scontri?
E che dire del caso di Killing Floor, action multiplayer online giunto al debutto con un pedigree e un'ambizione relativamente scarsi, recensito dai media con un modesto 72% e divenuto poi un vero fenomeno di massa su PC, con addirittura il 96% di 45 mila recensioni positive? Cos'è sfuggito, in questo caso, alla critica internazionale che invece il pubblico ha colto e deciso di premiare?
Esempi del genere abbondano, specialmente da quando il Web 2.0 ha consentito agli utenti di far sentire direttamente la propria voce, senza intermediari e con un'eco che, grazie alla forza dei numeri, eguaglia e spesso sovrasta quella ottenuta dagli stessi mezzi d'informazione.
Si potrebbe obiettare, ovviamente, che la funzione della critica non sia semplicemente quella di offrire "consigli per gli acquisti", bensì di contribuire a formare ed accrescere la cultura del medium a cui si rivolge, nel nostro caso attraverso uno studio ed una disamina approfonditi dei vari elementi di un gioco, che vadano al di là del semplice potenziale di successo commerciale. Argomentazione inoppugnabile, che però ha una grossa controindicazione: può finire per produrre una frattura tra l'editoria e il pubblico consumer ancora più grande di quella generata dagli inevitabili fattori anagrafici e generazionali.
Qualcosa di simile a quello che è già successo da tempo nel mondo del cinema: un settore nel quale la "critica ufficiale" è considerata elitaria e spocchiosa dal grande pubblico, che molto spesso diverge radicalmente dai giudizi espressi sui giornali, ignorando ferocemente i film d'autore più apprezzati dagli "esperti" e premiando invece al botteghino produzioni da questi ultimi snobbate e considerate di terza categoria (l'esempio più banale e lampante, in Italia, è quello dei cosiddetti "cinepanettoni", ma non solo).
Siamo destinati a vivere la stessa situazione anche nel mondo dei videogiochi? È forse per questo che gli ultimi anni hanno consacrato al successo planetario su YouTube personaggi più o meno variopinti i quali, a fronte dei loro milioni di seguaci, hanno dato un contributo oggettivamente modesto alla crescita culturale del nostro medium? (Senza nulla togliere, ovviamente, ai numerosi youtuber che producono contenuti di elevata qualità, pur ricevendo spesso molti meno click.)
Si tratta, probabilmente, di un dilemma dal quale è impossibile uscire. Da un lato, l'essere "professionista" (o anche semplicemente "esperto") in un determinato ambito implica l'impossibilità di porsi direttamente sullo stesso piano di chi vi si è appena approcciato, con la medesima freschezza e altrettanto entusiasmo. Dall'altro, scrivere soltanto per i vecchi "veterani" del settore potrà farci sentire in buona compagnia e toccare le nostre corde nostalgiche di giornalisti incalliti, ma equivale sostanzialmente a raccogliersi intorno al camino con quei pochi amici fedeli, per fumare la pipa e parlare della grandezza dei bei tempi. Un'iniziativa forse appagante ma poco percorribile dal punto di vista commerciale per una pubblicazione che abbia l'obiettivo di restare sul mercato.
Per chi, come me, deve il suo amore per i videogame tanto ai giochi in sé per sé, quanto (in misura almeno paritaria) all'incredibile e affascinante universo delle riviste prima, e dei siti poi, che vi hanno gravitato attorno nel corso dei decenni, l'impasse è dolorosa e, per certi versi, imbarazzante. Chissà che a consigliarmi la giusta via per uscirne non siate proprio voi, cari lettori.