A Way Out - recensione
Chi trova un amico, trova l'uscita.
Nato grazie al programma Originals di un Electronic Arts che non ti aspetti, A Way Out arriva sui nostri schermi per portare l'originalità e il talento di Josef Fares, game designer eccentrico ed incontenibile sia quando si tratta videogiochi sia al di fuori. Famoso il suo "f*ck" agli Oscar di Hollywood ad esempio, nonostante la sua prima occupazione sia quella di regista e sceneggiatore.
È sempre stato così Fares, che non si è mai adattato agli schemi tradizionali del mercato main stream. D'altronde era salito agli onori della cronaca per il suo primo titolo, Brothers, che portava in dote la peculiare meccanica tanto fuori dal comune quanto apprezzabile di poter controllare i due fratelli contemporaneamente per superare gli ostacoli.
Il legame tra i due personaggi protagonisti è una specie di segno di riconoscimento per il creativo nato in Libano ma emigrato in Svezia per via della guerra civile. Una firma che deriva probabilmente dal grande rapporto che ha sempre avuto nella vita reale con il fratello Fares Fares, spesso al centro delle sue produzioni cinematografiche, e che stavolta ha prestato il volto e le movenze all'italo americano Leo Caruso, al centro delle vicende di A Way Out, insieme al neo carcerato Vincent Moretti.
Fares, il regista, si è spinto ancora oltre rispetto a dove era arrivato con Brothers, e la cooperazione ora si fa addirittura obbligatoria insieme ad un altro giocatore reale. Non c'è modo infatti di proseguire nell'avventura senza un amico vero, che si trovi a casa nostra con un secondo pad o dall'altra parte del mondo grazie all'online.
È la prima della scelte che distingue A Way Out da tutti gli altri, nel bene e nel male. Da una parte sarete quindi costretti a mettervi d'accordo con qualcuno che sia disponibile ad aiutarvi per tutta la durata della storia di Leo e Vincent, senza possibilità di proseguire da soli, quindi essendo bloccati se i vostri amici hanno da fare e voi volete andare avanti.
Dall'altra parte invece si aprono tutta una serie di scelte artistiche e meccaniche originali, quasi uniche, che come vedremo renderanno la cooperazione obbligatoria un vantaggio in più di un caso. Lo si vede però soltanto in fase avanzata, verso quasi la metà di tutto il gioco, mentre durante la prima fase è quasi frustrante dover compiere una serie di azioni semplicissime e guidate dove anche una IA basilare poteva venirci incontro. Impersonare Leo o Vincent è indifferente come possibilità di gioco, sono praticamente uguali, quello che cambia totalmente è però il carattere.
Leo Caruso è un italoamericano orfano, cresciuto in strada e che si è fatto largo nella società come malvivente, è quindi grezzo e pronto a trovare la soluzione più rapida per raggiungere il suo fine, sprezzante del pericolo. Vincent Moretti è figlio di una vita diversa. Aveva un buon lavoro, una vita tranquilla, non voleva mettersi nei guai fino all'incontro con il suddetto Harvey, personaggio antagonista che fa da cardine anche tra i due. Il passato travagliato e il nemico in comune sono gli elementi che li uniscono nello scopo. È da qui che parte la vera storia di A Way Out. Una storia di vendetta ambientata per la stragrande maggioranza all'aperto, non solo nella prigione da cui evadere come ci si poteva aspettare da quanto svelato da EA e Fares fino ad oggi.
Non parliamo però di mappe esplorabili o addirittura open world. Ogni capitolo avviene in una scena delimitata, in cui seguire azioni in modo decisamente lineare grazie alle indicazioni a schermo. C'è poco da inventare in A Way Out. Non ci sono neanche enigmi da risolvere come fosse un'avventura punta e clicca, nella maggior parte dei casi basta avvicinarsi al punto prestabilito e seguire le indicazioni, e se non basta anche premere il tasto che vi indica con cosa potete interagire.
Man mano che si avanza però, fortunatamente le cose si fanno leggermente più complesse e decisamente più spettacolari. Dopo i primi percorsi totalmente lineari, si presenta qualche vera biforcazione che ha dei risvolti diversi sul livello che stiamo per affrontare, per di più basato sul carattere dei due protagonisti. In alcuni casi è possibile quindi scegliere se affrontare una sezione alla maniera di Leo o alla maniera di Vincent che, come detto in precedenza, preferirà modi meno rudi per risolvere una questione. Si assiste a variabili di questo tipo anche in altri casi senza obiettivi particolari, come ad esempio durante il semplice girovagare nelle location: se Leo si prende gioco di un quadro sul muro disegnandoci dei baffi, Vincent magari lo cancellerà pensandolo ridicolo.
L'evoluzione prosegue sia sul fronte narrativo, sia su quello del gameplay. Lo split screen necessario a farvi giocare insieme varierà la formula sempre più spesso introducendo prospettive diverse e meccaniche di gioco nuove. Succede così che in alcune fasi si aggiunge un'inquadratura per farci vedere cosa accade in una terza stanza, o se ne toglie una per alternare il gioco da Leo a Vincent, o ancora si amplia fino a diventare una prospettiva dall'alto e continuare il gioco insieme con un nuovo punto di vista.
Il gioco può cambiare radicalmente per diventare un picchiaduro, un racing, uno sparatutto o altro ancora. Una varietà a sprazzi che stupisce e diverte dopo un inizio sottotono, quasi deludente. È un peccato che la quantità di interazioni da fare in combinata, quelle che richiedono una collaborazione davvero ponderata nella realtà, non siano moltissime.
Con l'avanzare si capisce anche che il punto di forza di A Way Out non è il gameplay, privo di sfida e difficoltà, che diverte brillantemente solo nelle fasi in cui ci costringe a dialogare con il nostro compagno reale per decidere i tempi delle azioni e i turni, purtroppo poche rispetto a quante ne avremmo volute in un gioco del genere. È la narrazione dei caratteri dei di Leo e Vincent ad essere protagonista, soprattutto le storie che fanno da background a tutto il plot, da scoprire tramite i dialoghi tra un NPC e l'altro, e ovviamente durante le cutscene registicamente impeccabili ed emozionanti, dai toni tipici dei film d'azione americani.
Ad inframezzare le scene d'azione ci sono tante, tantissime interazioni praticamente inutili ai fini del gioco, ma assolutamente necessarie a sviluppare quel legame tra Leo e Vincent che si va a riflettere su quello tra voi e il vostro amico reale. Ci siamo sfidati e presi in giro giocando a freccette, a basket, a braccio di ferro e anche a forza quattro, tra grandi risate. La grande cura per queste azioni secondarie, unita ai dialoghi tra i protagonisti e gli NPC, sempre diversi a seconda del tono usato, mostra la forza della direzione artistica di Fares e i suoi, la chiara libertà artistica da studio indipendente.
C'è qualche riserva anche sulla trama, io e il mio compagno di gioco (Daniele Cucchiarelli, ndR) abbiamo riconosciuto tanti cliché del genere che non sorprendono più di tanto. Lo stile però è cristallino e lo si vede nelle sezioni dove ci si alterna con il compagno in modo molto veloce, tra un cambio di meccanica di gioco e un movimento di camera altamente dinamico. In alcuni casi ci siamo stupiti di quanta enfasi riuscisse a trasmettere. Non si salta sulla sedia per i colpi di scena, abbastanza telefonati se siete abituati a film sullo stesso tema, e non si va in ansia per via dello stile violento ma soft, eppure l'atmosfera riesce in fondo ad ammaliare.
Dove proprio non possiamo promuovere A Way Out è nel comparto tecnico, riconoscibilmente datato. Il motore di gioco appare visibilmente limitato in tutti gli aspetti. Modellazione, texturing e quant'altro, sembrano appartenere alla vecchia generazione di console e neanche dell'ultimo periodo del ciclo vitale. Lo stile con sfumature cartoon non può salvare una modellazione molto semplice, così come le animazioni e una quantità di dettagli presenti su schermo che al giorno d'oggi risultano scarsi. È chiaro che non è il caso di comparare il titolo ad altri tripla A e che il focus resta la narrativa, ma non possiamo dirci soddisfatti su questo piano.
Josef Fares ha rischiato davvero grosso con A Way Out. Costringere alla cooperazione obbligatoria ha i suoi vantaggi unici, ma in più di un caso si è rischiato di percepire A Way Out come un buon titolo monco della componente single player.
I limiti tecnici del motore di gioco e la scarsa profondità del gameplay ci hanno fatto temere il peggio, salvo poi ricrederci quando abbiamo giocato le scene di profonda cooperazione e assistito a quelle più spettacolari con un taglio cinematografico più spinto. Un peccato perché A Way Out poteva rivoluzionare il genere e affermarsi come punto di riferimento, invece è "solo" un gioco eccellente dalla forte componente narrativa e un design fuori dal comune.