Mandy - recensione
Un horror schizofrenico, psichedelico, violentissimo.
Ci sono attori che nelle loro scelte artistiche sembrano votati a un lento suicidio. E spesso ci riescono. Rappresentante principe di questa categoria è Nicolas Cage, attore partito bene e capace di guadagnarsi un suo affezionato, trasversale pubblico.
Erano i tempi di film come Birdy, Peggy Sue Si è Sposata, Stregati dalla Luna e l'incontro con Lynch per Cuore Selvaggio. A metà anni '90 è arrivato l'Oscar per Via da Las Vegas, poi è cominciato il periodo dei film di cassetta, azione o commedie sentimentali che fossero, in cui alternava prodotti dignitosi ad altri bassamente commerciali, pur continuando a collaborare con registi prestigiosi (Spike Jonze, John Madden, Joel Schumacher, John Woo, Ridley Scott, Andrew Niccol, i Fratelli Pang, Werner Herzog).
Una carriera onorevole che negli ultimi anni ha preso una piega che lascia perplessi, con film spesso semplicemente brutti e uscite direct to video (ma anche con terribili toupet e tinte per capelli al catrame). Film scelti autolesionisticamente, un cupio dissolvi che lo ha mantenuto però ben vivo nella memoria degli appassionati di cinema, in una bulimia lavorativa (ha otto film in uscita nei prossimi due anni) che ha scatenato varie illazioni. Si parla di debiti col fisco per cifre agghiaccianti.
É emersa con chiarezza una sua predilezione personale per l'horror, per il sovrannaturale, per il mondo dei fumetti, per l'heavy metal. Ogni tanto però azzecca una piccola riscossa, un film almeno decente, una partecipazione magari marginale (come in Snowden), a ricordare quello che si era buttato via.
Tutto questo lo raccontiamo perché la presenza di Cage nei suoi film è sempre forte, sia quando si tratta di cose discutibili, sia quando sono prodotti riusciti. Arriva adesso al Festival di Torino, dopo essere già passato anche al Sundance e a Cannes, il film Mandy, un horror di cui è responsabile Panos Cosmatos, che anche co-scrive la sceneggiatura, figlio di quel George P. Cosmatos, prode artigiano di film passati alla storia come Rambo 2 o Cobra (e anche Leviathan e Tombstone).
Panos, già responsabile del discutibile Beyond the Black Rainbow, è uno al quale piace infierire con i cromatismi e qui, complice la fotografia apprezzabile di Benjamin Loeb con l'uso di "panaflares", effetti per rendere sgranata e sfocata l'immagine, prosegue nella sua tendenza. Non gratuitamente però, e soprattutto nella prima parte del film, perché la seconda cambia registro.
Red lavora coma taglialegna per una grossa segheria, che spoglia le verdissime montagne canadesi. Ma appena può si rifugia nella sua casa, una baita con immense vetrate che si aprono sul bosco in cui è immersa, vicino al Christal Lake (nome evocativo...). Là lo attende il suo amore, la delicata Mandy, bella anche se sfregiata da una cicatrice, artista che disegna mitologici panorami, amante del fantasy e del misticismo, che aiuta l'ispirazione con qualche droga leggera.
Più preziosa di un preziosissimo gioiello, per lui che la guarda incantato e incredulo di averla. Una vita isolata, primordiale, raccolta, in cui capiremo che Red si è rifugiato per fuggire da altri fantasmi. Ma un bruttissimo giorno la fragile ragazza incrocia un furgone con un gruppo di psicopatici, una specie di setta omicida guidata da Jeremiah, padre padrone di esibita perfidia, di compiaciuta laidezza, che decide di farla sua.
Per possederla, evoca dai boschi tre mostruose creature del male con un look alla Hellraiser (poi sapremo che sono delle specie di mutanti modificati da droghe inimmaginabili). Pur drogata con sostanze da far sembrare l'LSD un'aspirina, Mandy provoca la collera di Jeremiah che si vendica atrocemente sotto gli occhi dell'impotente Red. Lontano, in mezzo alla natura incontaminata, nessuno potrà sentirlo urlare. Il ricordo dell'Ultima Casa in Fondo a Sinistra impallidirà nel delirio gore della seconda parte, quella della vendetta sacrosanta.
Dopo un'apertura sulle note di Starless dei King Crimson, la narrazione è accompagnata, immersa nella musica bellissima di Jóhann Jóhannsson, cui il film è dedicato e della cui morte non smetteremo mai di dolerci, capace di composizioni evocative come già in Sicario e Arrival, colonne sonore che permeano la narrazione e si fanno narrazione.
Linus Roache, dopo anni di onorata carriera, dispiega le sue capacità istrioniche in un personaggio sopra le righe, una specie di Charles Manson, frustrato cantante di zuccherose nenie hippy, respinto dallo showbiz. Lo circondano volti noti: la sua amante/assistente è Olwen Fouéré, vista in Animali Fantastici 2, e si riconosce lo sgradevole Ned Dennehy, faccia sempre poco rassicurante. Compare Bill Duke, a fare da trait d'union fra diversi immaginari, faccia mai rassicurante dall'esordio in American Gigolo, passando dopo Predator in una quantità di thriller/action.
Dilaga ovviamente Cage, che qui si riserva un personaggio estremo, sottoposto a estremi strazi in cui mostra, nel suo disperato eccesso, tutta la sua bravura in una scena drammatica che poteva diventare involontariamente comica (per qualcuno forse lo sarà) e che resterà negli annali del grottesco.
Il film è ambientato nel 1983 e rimanda/riprende tutto l'immaginario di genere, non solo cinematografico, con quell'arma che Cage si forgia da solo, un rimando alle altre passioni di Cage, che non dubitiamo entusiasta sostenitore anche delle parentesi in animazione del film.
Mandy (no, se avevate pensato a Barry Manilow eravate fuori strada) è letteralmente due film in uno. Dopo la prima parte compare nuovamente il titolo e si prosegue in una direzione di voluttuoso slasher, in cui ci si dispone con godimento ad assistere alla sequenza di ammazzamenti sempre più fantasiosi in cui Cage, rimessa mano anche alla sua amata sega elettrica, può finalmente deliziarci con le sue celebri facce da pazzo, che in qualche occasione ricordano (citano?) il Bruce Campbell dei bei tempi con Sam Raimi (ma inevitabilmente si può trovare anche un omaggio al nostro cinema à la Soavi).
Mandy non è un film con Cage ma Cage è il film, un film disarmonico, sbilanciato, che cerca il pugno nello stomaco a tratti riuscendoci bene, pur vaccinati come siamo dalle molte efferatezze viste negli anni. Lo fa grazie alla fotografia, alla musica e alle performance degli attori, divenendo un incubo rarefatto, dilatato, come un trip drogato che diventa bassa macelleria, in cui tutti possono cogliere rimandi alti o bassi a molti altri registi, da Rob Zombie a Refn.
Mentre si aspetta la fine dei titoli di coda, per sentir cinguettare uccellini e vedere disegni del protagonista divenuto mito, a introduzione del film compare la frase attribuita a Douglas Roberts, condannato a morte nel 2005 per sequestro e omicidio: "Quando morirò seppellitemi nel profondo, con due altoparlanti ai piedi e una cuffia in testa, che mi culleranno quando sarò morto".
Mandy non ha ancora distribuzione in Italia.