Tra Genshin Impact ed EA. Loot box e gacha game a confronto - editoriale
Due facce della stessa medaglia: è possibile arginare il fenomeno?
13 agosto 2020, California: Kevin Ramirez cita in giudizio Electronic Arts. Nel mirino la modalità Ultimate Team di FIFA 20, colpevole di avere pacchetti di giocatori dal drop casuale. Del 19 ottobre, invece, la causa voluta dai canadesi Mark Sutherland e Shawn Moore, giocatori di Madden NFL e altri giochi NHL, diventata una vera e propria class action. Oggetto dei processi sono le meccaniche di loot box, accusate di violare le leggi sul gioco d'azzardo. Due eventi che, a così breve distanza, non possono che riportare la nostra attenzione sui sistemi predatori che tormentano l'industry ormai da un decennio, e che proliferano nelle zone d'ombra delle legislature nazionali.
A maggior ragione che, lo conosciamo tutti, Genshin Impact è l'incontrastato fenomeno del momento: un action rpg, open world, dallo stile anime e un cast di eroi allegro e vivace. Secondo Daniel Amhad, analista di Niko Partner, in sole due settimane il free-to-play di MiHoYo ha guadagnato 100 milioni di dollari. Per riuscirci, Genshin utilizza una meccanica gacha, con scrigni e cristalli che contengono personaggi e armi casuali. Tra le strategie di engagement, la creazione di un'urgenza, fittizia, per ottenere alcuni eroi prima dello scadere di eventi temporanei.
Gacha e loot box non sono del tutto sinonimi, ma rappresentano lo stesso modo di rapportarsi al giocatore, visto come mucca da spremere e non, più idealmente, come fruitore di un'opera. Alcune definizioni, prima di addentrarci ulteriormente nella discussione. Una loot box è un contenitore di oggetti random, e digitali, che il giocatore svela all'apertura. A seconda del gioco di riferimento, il bottino è composto da personaggi, potenziamenti, armi, valute in-game, carte. Queste scatole, casse, scrigni, o pacchetti di carte, si possono ottenere in molti modi, ma è sempre il denaro reale che permette di massimizzare i risultati e puntare ad ottenere le ricompense più uniche, forti, ambite.
I gacha game, al contrario, hanno un'apparente trasparenza dei drop e puntano al collezionismo di set d'equipaggiamenti, unità, carte. Il premio viene svelato dall'apertura di cristalli o sfere che in tutto e per tutto ricordano le capsule di plastica dei distributori, tipici in Giappone e Cina, da cui il sistema prende il nome. Cos'hanno, quindi, di diverso gacha e loot box? Se guardiamo a fondo, al nocciolo e oltre l'estetica, un bel nulla. Entrambi i sistemi si affidano alle logiche dell'azzardo. E inutile dirlo, portano soldi grazie alla reiterazione di acquisti spesso inconcludenti.
La regolamentazione di questi sistemi, in circolo dal 2004, è stata tardiva, e ancora lontana dal potersi dire conclusa. Nel 2012, in Giappone, i gacha game sono stati frenati dopo essere diventati un fenomeno di massa, e quasi fuori controllo, per via di Puzzle & Dragons. Da allora è stato imposto che il drop-rate fosse "esplicito", e che ogni tot acquisti ci fosse la garanzia di ottenere uno degli oggetti più rari (ma non sempre quello desiderato). Le Blizzard, per Overwatch ed Hearthstone, ha rivelato le percentuali soltanto a partire dal 2017, per adattarsi al mercato cinese.
L'agenzia per la tutela dei consumatori giapponese (Shouhishachō), quindi, riuscì soltanto a scalfire la superficie, facendo inoltre sì che i premi ottenuti fossero considerati, per l'appunto, premi: ovvero qualcosa che l'utente può desiderare al punto tale di cadere in cattive abitudini d'acquisto, sregolate e spasmodiche. Tra le condizioni necessarie per parlare di gioco d'azzardo.
I gacha game si sono adattati ai limiti imposti, consapevoli che anche senza forzare la mano ottengono risultati, e decisi a non perdere la fetta di pubblico, troppo vasta e variegata, di cui vantano. Un pubblico che alle volte è come Pinocchio e si fa condurre da un ingresso free-to-play in un mondo di balocchi che tutto è, eccetto quel che sembra. È noto, dai brevetti registrati, che questi giochi poggiano su impalcature di codice che carpiscono dati d'acquisto e abitudini, per poter ricalibrare il prossimo desiderio da impacchettare.
Ma cosa spinge un'azienda a utilizzare un'espediente di questo genere? La risposta è che le grandi compagnie puntano ai tripla A, al game as a service, alla crescita esponenziale. Le piccole compagnie puntano al coinvolgimento continuo dell'utenza, nella speranza di fare il botto. E se l'evoluzione tecnologica crea i suoi miti, crea anche grossi problemi. Cristopher Dring, di Gamesindustry, riporta che secondo il presidente di IDG, Yoshio Osaki, i costi di sviluppo di un gioco next-gen sono cresciuti dal 200% al 300%. Se il prezzo per l'acquirente, come conseguenza, diventasse proibitivo, è ragionevole temere una battuta d'arresto. Ma spesso, i giochi a prezzo pieno, non mancano di appoggiarsi a pubblicità (è il caso di NBA 2K21) e Season Pass.
Dunque si pensano sistemi alternativi per rientrare nelle spese. Quasi ogni franchise di successo ha un gioco mobile con dinamiche simili, per spremere i guadagni con giochi relativamente economici da realizzare. Si può dire che nessuno sfugge all'appello: Assassin's Creed: Rebellion e South Park (Ubisoft), i gacha di Disney/Marvel, The King of Fighters, Final Fantasy (Brave Exvius ha recentemente festeggiato i 45 milioni di download), e così via. Ma l'inerzia crudele del mercato può essere una scusante per vendere paccottiglia digitale? Siamo sicuri che non esistano sistemi di guadagno alternativi, meno invasivi, che non vampirizzino l'utente?
Il problema è che questi sistemi sono ormai il modo, passivamente accettato, in cui è lecito porsi. Le prospettive di guadagno, in fin dei conti, sono più alte se confrontate a un business che punti all'acquisto mirato di un oggetto, come una mount di WoW, il quale spesso ha un prezzo che rispecchia il suo valore effettivo agli occhi dell'utenza, nonostante non è detto sia sempre economico.
I gacha game non si reggono in piedi solo grazie agli acquisti, ma anche tramite pubblicità e inviti a testare giochi dello stesso genere: si è creata una rete di IP, con la stessa filosofia, che si sorreggono a vicenda. In quanto free-to-play hanno poi la propria fetta di appassionati, che sia ben inteso, non sempre sono vittime manipolabili. A volte sono giocatori navigati che amano il brivido della scoperta e del loot, che sanno quando fermarsi, ma che anche senza spendere denaro rinforzano l'esistenza di questi modelli di business.
I rischi etici di modelli d'acquisto affidati al caso sono sotto gli occhi di tutti. Tra sorprese e percentuali implausibili di vittoria, ad andarci di mezzo sono ovviamente i più deboli, i genitori meno informati e i bambini, perché difficilmente possono rendersi conto degli espedienti di auto-conservazione interni al gioco.
Oltre al semplice agonismo tra compagni di gioco in cerca dell'Ultra Rare, spesso acuito dal gioco pvp, uno dei magneti sull'utenza è la percezione di scarsità creata dalla presenza di premi momentanei. Un oggetto che rischia di sparire nell'arco di una settimana, crea un pubblico affamato, che spesso è in balia di creator che spendono migliaia di dollari per mostrare, prima di chiunque altro, l'oggetto tanto agognato.
In altre parole, la pressione sociale inasprisce il fenomeno. Lontani dal voler usare toni apocalittici, è un fatto sotto gli occhi di tutti che qualcuno si abbandona a spese esorbitanti, spesso effettuate in mancanza di sistemi efficaci di parental control. Tra i casi più recenti, quello dello streamer Lacari, non certo un ragazzino, che con Genshin Impact ha speso 5000 dollari prima di sbloccare l'agognato personaggio, Keqing, all'interno di una cassa gratuita. E qui sta il paradosso.
Non si possono neanche accusare, con leggerezza, tutti i genitori di semplice cecità, perché ancora esiste un gap concreto, generazionale e culturale, che soltanto il tempo appiattirà. Dopotutto anche gli adulti sono vulnerabili alle sottili strategie per aumentare la dipendenza al gioco: la fantomatica carota appesa al bastone, inganno di molti cavalli, da anni tiene inchiodati a prodotti come Candy Crush Saga.
Anche un semplice effetto sonoro, ben piazzato in concomitanza con un click, scatena un party di endorfine. La conoscenza di queste meccaniche di gamification costituisce l'ariete per sfondare ogni resistenza corporativa, e parlare apertamente di dipendenze dal gioco (proprio gioco d'azzardo), anche quando, ufficialmente, ci si trova in un'area che per qualcuno sarebbe ancora grigia. Scriveva Brendan Sinclair, nelle nostre pagine, che si ha l'impressione che si stiano orchestrando "giochi che consumano i loro giocatori". È vero, e ancor più vero è che, spauracchi da parte, è chiaro che serva una bussola, o una diga.
Tornando a Genshin Impact, pensato come un viaggio d'esplorazione, l'urgenza di spendere non è così evidente. La mappa e i dungeon al momento disponibili si possono affrontare con pazienza, e una regolare progressione da action rpg. Con l'aggiornamento di dicembre e l'introduzione della regione Dragonspine, i rank che al momento si ottengono a fatica, potrebbero diventare più facili da scalare. Il gioco, d'altro canto, è davvero ben fatto. Allora, perché l'utilizzo delle loot box? Come si diceva su, pressione sociale, engagement, e perché è il modello prevalente in ambiente mobile.
Se il gioco non spinge attivamente, con ostacoli insormontabili, verso l'acquisto di risorse, si potrebbe facilmente supporre che sia il libero arbitrio del singolo giocatore a spingere verso gli acquisti, e che non dipende dai dev una spesa fuori scala. Ma non è così. Se è chiaro cosa è presente nelle roulette, o slot machine gacha, non è ovviamente del tutto prevedibile cosa si trovi negli scrigni gratuiti. Il giocatore manca di tutte le informazioni necessarie a decidere o meno di un acquisto. Il caso di Lacari, pentito del suo investimento, lo dimostra. Gira e rigira, sono acquisti a scatola chiusa, è come giocare al Mercante in Fiera.
I giochi mobile e browser, dove proliferano gacha e loot box, restano colpevolmente al di fuori della critica, e spesso attirano un pubblico di casual gamer che difficilmente leggono siti specializzati. Visti come passatempi transitori, questi giochi passano sotto i radar, ma sedimentano il problema e quel tipo di linguaggio videoludico. Per rendersene conto, basta giocare Final Fantasy Tactics, e subito dopo War of the Visions: Final Fantasy Brave Exvius. Nonostante il gameplay sia quasi identico, e per certi versi migliore e più completo in War of the Visions, il modo di approcciarsi al videogioco come media è diverso. È diverso in profondità.
Il game design del JRPG tattico ne esce alterato, anzi martoriato. Prima di poter affrontare una battaglia, spesso automatizzata con personaggi iper-livellati, bisogna trascorrere una buona mezz'ora in inventari e menù labirintici, per raccogliere daily reward e potenziare i personaggi ottenuti casualmente, con oggetti guadagnati in lunghe sessioni di grinding. Oggetti che sono presenti nello shop, per far sì che chiunque desideri, in tempi brevi si possa mettere al pari con il resto dell'utenza. Gli inventari diventano pieni di consumabili e token di cui il giocatore, a volte, non è neanche a conoscenza. Si gioca in maniera automatizzata: a guidare sono i punti esclamativi, disposti strategicamente ogni qual volta si hanno dei power up pronti per essere consumati.
In quanto videogiocatori, è nostro interesse guidare il mercato verso modelli sostenibili, specialmente se l'obiettivo comune è avere, tra le mani, prodotti che siano di valore. Negli anni si è visto che a domanda corrisponde offerta. La voce dei videogiocatori potrebbe quindi ridurre la presenza di micro-transazioni? Un momento noto a tutti di questa volontà di sensibilizzazione, che fa ben sperare, è stato il biennio 2016/2017, durante il quale diversi paesi hanno cominciato a cercare soluzioni concrete al problema.
Nel 2017, la polemica scoppiata intorno a Star Wars: Battlefront II, ha infatti spostato l'asse delle micro-transazioni dal pay-to-win a un modello che puntasse a miglioramenti estetici. In genere i pay-to-win, oggi, sono visti di cattivo occhio: ma questo è stato possibile anche perché l'esport fa modello virtuoso e settore a sé, e vive di fair play, allenamento e regole di gioco definite. In altre parole, evitare il pay-to-win significa avere spazio nel colosseo dei giochi sportivi, ma questo non è l'interesse di tutti i developer.
Una vittoria di Pirro, dunque? Forse sì, perché più in generale la regolamentazione varia ancora da paese a paese, si parla di self-regulation. Le loot box di Counter Strike: Global Offensive, se per esempio sono vietate in Belgio, non lo sono altrove. Allora, vietare il contenuto, assume agli occhi dei giocatori la forma di una censura, e non di una tutela, col rischio concreto di un fuoco di ritorno.
È possibile arginare il fenomeno? Servirebbe un fronte comune. È evidente che il desiderio dei videogiocatori è una next-gen che sia spettacolare, intensa per grafica e prestazioni. L'industry cercherà di fornire queste esperienze, e di stare al passo quando un'opera capitalizzerà l'attenzione, lasciando gli altri franchise momentaneamente nell'ombra, a spolpare le ossa. Questo significa che si continuerà con modelli tali da cavalcare l'onda e non affogare.
C'è difficoltà nel trovare mezzi di guadagno alternativi, e non sempre è la qualità a vendere, non è qualcosa che faccia rientrare per certo negli enormi costi di produzione. Non sono problematiche nuove, anzi, ma la deriva è a discapito dei giocatori. Viene in mente che, nel 2011, un piccolo gioco chiamato DLC Quest mostrava un'avventura costantemente interrotta da pop up, pubblicità, e richieste d'acquisti. E sembra che sia ancora oggi così: l'incudine è il gioco d'azzardo, il martello un gioco in parte mutilato o che prosegua a singulti.
Del 2016 il caso di Final Fantasy XV, gioco la cui trama centrale era scorporata in tre DLC e disseminato di pubblicità sui Cup Noodle, direct marketing un po' goffo. Tra porzioni di gioco mancante e pubblicità invasiva, è chiaro che Square-Enix stava con l'acqua alla gola. I DLC facevano leva su un senso di completismo e mancanza, lo stesso che può darci un cliffhanger da serie tv. La pubblicità, invece, sporcava il prodotto con frammenti di realtà e insultava l'utente, che se opta per un gioco fantasy, si aspetta di evadere in un mondo alternativo. Questa parrebbe, dunque, l'alternativa alle loot box.
Bisognerebbe iniziare a immaginare sistemi più onesti, che liberino i giochi, almeno in parte, dalle regole stringenti di un mercato sempre più affamato, sempre più veloce. È necessaria una sensibilizzazione complessiva su quanto sia dispendioso creare un videogioco, sulla quantità di forza lavoro necessaria e sul valore delle opere in sé, veri e propri gioielli di ingegno umano, storytelling e logica. In questo modo, prezzo e offerta ludica potrebbero andare di pari passo. E dato che nulla è gratuito, bisognerebbe cominciare a capire quale tipo di pubblicità possa essere accettabile all'interno di un videogioco, e quale no, per evitare impennate di prezzi che rendano il nostro media elitario.
È necessario non aver fretta, e apprezzare le ambientazioni di lavori come Genshin Impact per quello che sono, seguirne dungeon e quest, e divertirsi lasciando perdere la finta urgenza di ottenere l'ultimo, più bello, eroe di turno. Arriverà il punto in cui gli inventari non saranno più lo strumento dell'avventuriero, ma uno zaino bucato che ci inviterà costantemente a spendere soldi. E gestire per minuti interi un inventario pieno di ciarpame non è certo lo scopo di un open world, di un gioco di ruolo, di un card-game, di un titolo sportivo, e in genere di qualunque altro videogioco. Altrimenti, dovremmo alzare le mani e ammettere che il nostro hobby si sta trasformando in una perdita di tempo.
La questione è ancora aperta, e non si ha la pretesa di chiuderla. Leggi, informazioni, acquisti e volontà dei giocatori possono incontrarsi per piegare il mercato verso una trasparenza che tuteli il consumatore. Ogni acquisto, in qualunque settore, porta con sé il valore di una scelta.