I Guardiani della Galassia, Neil Druckmann e i vantaggi della linearità - editoriale
Alle volte vogliamo solo giocare una bella storia…
Ho appena finito Marvel's Guardians of the Galaxy e la prima cosa che m'è venuta spontanea è stata scrivere questo editoriale. Per chi fa il mio mestiere è sempre un buon segno incappare in qualcosa che spinga a mettersi davanti a una tastiera, perché vuol dire che offre spunti di riflessione.
La prima cosa che dovete sapere è che ho deciso di giocare a Marvel's Guardians of the Galaxy per via del votone assegnatogli dal buon Riccardo nel corso della sua recensione. Un 9 non è certo una valutazione che vada data a cuor leggero e ogni tanto, quando ho tempo, mi metto a provare i titoli assegnati ai redattori per vedere se ci sia corrispondenza tra quello che hanno visto loro e quello che vedo io. E questo è stato uno di quei casi.
La seconda cosa da sapere è che sono arrivato a Marvel's Guardians of the Galaxy dopo aver tentato invano di platinare Death Stranding Director's Cut. Dico invano perché, rispetto alla versione originaria del gioco, ora il massimo trofeo è un po' più difficile da ottenere. E mi riferisco a quell'Homo Faber che, tra le altre cose, richiede di craftare stavolta 108 oggetti tra cui il Roadster, ottenibile solamente vincendo alcune gare col rank S. Col piccolo problema che le sezioni di guida del capolavoro di Kojima le trovo personalmente atroci, ricordandoci se mai ce n'è bisogno che il Decima Engine non è nato per i racing game.
Queste divagazioni servono a spiegare per quale motivo le prime ore di Marvel's Guardians of the Galaxy mi siano risultate... moleste: perché Peter Quill, Drax, Rocket e Gomora non stanno zitti un attimo. Meno male che c'è Groot, che parla poco e il cui vocabolario si compone di sole tre parole. Passare dai silenzi di Sam Porter, sottolineati dai suggestivi effetti sonori ambientali, a cinque personaggi che passano il tempo a bisticciare in quella che sembra una riedizione spaziale delle commedie di Sandra e Raimondo, non è stato facile. "Ma è possibile che questi non stiano mai zitti?", mi sono trovato più volte a pensare? "Litigano pure durante i combattimenti!", ho esclamato altre.
E poi l'impianto ludico del gioco mi è sembrato ben poca cosa: incentrato sulla triade corridoio-stanza-sparatoria, ripetuta ad libitum, Marvel's Guardians of the Galaxy inizialmente ha poco da offrire, se non l'immancabile caccia al collezionabile che personalmente trovo sempre più stucchevole (poi li raccolgo tutti perché sono un povero completista, ma è un altro discorso).
Per cui 9? Uhm... 7, al massimo. "Vado ancora un po' avanti ma mi sa che mi tocca chiamare Riccardo e farci quattro chiacchiere", ho subito pensato. Poi, però, un po' che mi sono abituato al chiacchiericcio di fondo, un po' che il combat system si dimostrava sempre più profondo, piano piano le mie sessioni hanno iniziato ad allungarsi.
E così dai 45/60 minuti iniziali (poi mi stufavo), ho cominciato a restare attaccato al gioco ogni volta di più. La lettura dei vari codex è stata indubbiamente d'aiuto, contribuendo a immergermi ulteriormente nella lore del gioco, e cogliendo così al meglio le sfumature dei dialoghi che prima probabilmente mi perdevo.
Soprattutto, però, il gioco ha iniziato a prendere quota per via della trama e per come le dinamiche del gruppo si erano evolute gradualmente; un gruppo di scalcinati eroi che non si sopportavano l'un l'altro, piano piano diventavano sempre più affiatati e coesi, temprati da una minaccia galattica tanto folle e improbabile quanto intrigante.
Nel frattempo il combat system diveniva sempre più vario e, verso metà del gioco, la mia personalissima valutazione era già salita all'8. Fino ad arrivare alla conclusione, dove il 9 di Riccardo è diventato perfettamente comprensibile. Per cui sì, la telefonata gliela farò ugualmente ma per complimentarmi e magari scambiare qualche aneddoto.
Meno male che c'è il New Game +, perché diversamente mi mancherebbe il non poter passare altro tempo coi Guardiani della Galassia, e chiunque sia un vero gamer avrà provato almeno una volta nella vita quella sensazione di spaesamento derivante dal finire un gioco che si è amato, trovarsi "buttati fuori" nella real-life dopo i titoli di coda, eppure voler rientrare in quei mondi, in quelle atmosfere. Death Stranding, ad esempio, mi vede ciclicamente loggare per vedere in che condizioni sono le mie strutture e fare un po' di manutenzione. Ma i giochi single player, quelli con un inizio e una fine... loro no: finiti i titoli di coda, sembra quasi che ti conducano alla più vicina uscita.
È questo uno dei pochi pegni che pagano agli open world e ai loro finali aperti, sospesi, dove siamo noi a staccarci una volta che sentiamo sia giunto il momento di dirsi addio. Il loro più grande vantaggio è la narrativa, ed è qui che (tardivamente) mi riallaccio al concetto espresso nel titolo, per arrivare al quale avete pazientemente atteso.
Perché sebbene io ami il genere degli open world e non ci sia un Assassin's Creed che non mi veda ripulire pazientemente la mappa da qualsiasi collezionabile, se ripenso alle mie esperienze più folgoranti degli ultimi anni, queste sono tutte single-player. Sulla triade corridoio-stanza-sparatoria, ad esempio, è costruito The Last of Us che, per quanto mi riguarda, è la cosa più bella che abbia mai giocato. Ever.
Ma lo è per l'impianto ludico? Assolutamente no, e tenete presente che nel primo TLOU c'era anche il problema della Ellie "invisibile" ai nemici. Eppure la storia narrata era di rara bellezza, alcuni momenti me li ricordo ancora oggi e me li ricorderò per sempre (la morte di Sam, il combattimento tra Ellie e David, le giraffe e soprattutto il finale: "giurami che tutto quello che mi hai raccontato è vero". "Lo giuro"). Alle volte però mi sono trovato a domandarmi: e se il gioco fosse stato open world? Sarebbe stato ugualmente bello? Mi sono risposto che no, non sarebbe stato la stessa cosa.
Il motivo è presto detto: con la loro non linearità, gli open world non possono raccontare una storia bene quanto quelli lineari. Ognuno ha esperienze personali, derivanti dall'ordine con cui si affronta la mappa. E soprattutto, tra un punto di svolta della trama e l'altro, costringono inevitabilmente a compiere missioni secondarie, partecipare ad attività collaterali, consegnare oggetti, raccogliere risorse, combattere e mille altre cose che ne annacquano il comparto narrativo. Ho ricordi stupendi di Assassin's Creed Odyssey e Valhalla, ma se ripenso alle storie narrate mi sembra tutto dilatato, diluito.
E che dire di Red Dead Redemption 2? Una trama stupenda, un cambio di passo a metà gioco semplicemente geniale e un protagonista, Arthur Morgan, che entra di diritto nell'Olimpo dei migliori mai visti in un videogame. Ma anche qui, tra uno snodo narrativo e l'altro c'era troppa roba, e sono ormai tre anni che ogni tanto lo reinstallo, ci gioco un'oretta e poi lo lascio lì perché non ho voglia di affrontare decine e decine di ore solo per arrivare a quei punti che mi sono rimasti impressi nella memoria e che vorrei rivivere (poi, sia chiaro, c'è anche un certo The Witcher 3, un open world con un comparto narrativo stellare, ma parliamo della classica eccezione che conferma la regola e che, visto Cyberpunk 2077, probabilmente la stessa CD Projekt non riuscirà più a replicare).
Altri titoli usciti negli ultimi anni che ho amato particolarmente? L'ultimo God of War, ad esempio, e Persona 5, altro gioco dal quale non volevo più uscire e che nella mia personalissima graduatoria metto subito dietro a The Last of Us. Rispetto a Marvel's Guardians of the Galaxy o a The Last of Us hanno una struttura più aperta ma non si possono definire open world e, forse, rappresentano il meglio dei due mondi. Cioè garantiscono al giocatore quella sensazione di libertà che non lo fa sentire in un corridoio, ma non lo fanno neanche allontanare troppo dal seminato, eliminando qualsiasi dispersione ludica, narrativa e quindi contenutistica.
Ed è per questa ragione che pur avendo speso anni della mia vita sugli MMO, pur giocando (a intermittenza) a Destiny dal day one, pur apprezzando qualsiasi gioco Rockstar, avendo finito qualsiasi Assassin's Creed (tranne Unity, perché c'è un limite a tutto), avendo apprezzato Zelda: Breath of the Wild e non perdendomi alcuno Yakuza in tutte le sue declinazioni, i miei ricordi più vividi sono essenzialmente legati ai giochi single player.
Credo non sia un caso se quel furbacchione di Neil Druckmann in The Last of Us 2 sia sì venuto incontro alle critiche di eccessiva linearità mosse al primo episodio, ma allargando solamente alcuni corridoi (sono certo capirete la parafrasi) senza sconfinare nell'open world. E credo sia per questa ragione che, perdonate l'eresia, il fatto che Elden Ring e Halo Infinite siano open world mi lascia tiepido.
Pur comprendendo lo stacco col passato che rappresenterà il prossimo gioco di Hidetaka Miyazaki, tutto ho provato nei Dark Souls tranne che un senso di costrizione nelle mie esplorazioni. E quanto al prossimo Halo, sarò curioso di vedere se l'impianto narrativo riuscirà a mantenere intatta la propria forza o se non si assisterà a quella diluizione della trama cui accennavo prima; e anche se si scongiurerà quel rischio di ripetitività che vedo dietro l'angolo.
Insomma, va bene bene la modernità ma pensiamo per un attimo a Square Enix, che negli ultimi mesi ha prodotto un gioco al passo coi tempi come Marvel's Avengers, e uno old school come Marvel's Guardians of the Galaxy. E riflettiamo sulla differenza abissale che c'è tra i due. Che il futuro ci voglia ormai proiettati verso open world, sandbox, online persistenti, multiplayer, online pass, microtransazioni, metaversi e qualsiasi altra diavoleria atta a succhiare ciclicamente soldi dai nostri portafogli, è ormai inevitabile.
Ma abbiate pietà di questo gamer stagionato che alle volte si accontenterebbe solamente di un gioco con un bel gameplay, che duri il giusto e, soprattutto, che racconti una bella storia. Proprio come Marvel's Guardians of the Galaxy.