Zlatan Recensione: Quando vieni dal nulla devi lottare per tutto
Dal ghetto al successo: la storia di Ibrahimovic arriva al cinema.
Supereroe: personaggio immaginario, nato nell'ambito dei fumetti per ragazzi e poi trasferito nel cinema, dotato di forza muscolare, di capacità sensoriali e talvolta di capacità intellettuali straordinarie e sovrannaturali, che si assume il compito di proteggere l'umanità da catastrofi naturali o accidentali e, soprattutto, di combattere pericolosi e astuti criminali. No, così è troppo.
Eroe: nel linguaggio comune, chi, in imprese guerresche o di altro genere, dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie. Ecco, quasi ci siamo.
Zlatan Ibrahimović, nato a Malmö il 3 ottobre 1981, non è solo come ci ricorda Wikipedia un calciatore, attaccante del Milan e della nazionale svedese. È un eroe dei tempi moderni, in un periodo in cui gli sportivi (non tutti, solo quelli veramente speciali) si ammantano per molti di un'aura d'infallibilità e quasi d'invincibilità. Salvo poi dimostrare la loro umanità in molti frangenti, se non altro di fronte allo scorrere del tempo.
Qui si parla di calcio, ovviamente, che però è uno sport trasversale, trasmesso ormai in ogni dove e in ogni modo, capace di catturare l'attenzione di qualsiasi fascia d'età, di qualsiasi ceto sociale e di qualsiasi etnia. Essere eroi del calcio, oggi, vuol dire essere star planetarie, senza offesa alcuna per chi primeggia nel baseball o nella pelota. O lavora tutti i giorni silenziosamente per mettere il pane in tavola, paga le tasse e vive l'intero arco della propria vita nell'anonimato.
Un po' come il tennis ha avuto la fortuna (che diverrà sfortuna, quando si ritireranno) di vedere nella stessa epoca Federer, Nadal e Djokovic, il calcio è da anni benedetto dalla possibilità di vedere assieme Messi, Ronaldo e Ibrahimovic. Se ognuno di questi campioni fosse stato unico nell'arco della propria carriera, il suo palmares sarebbe stato sconfinato; così, invece, i tre hanno vinto molto ma non quanto altri atleti, magari meno talentuosi ma più fortunati nel loro collocamento spaziotemporale, hanno fatto e faranno.
Ibrahimović è oggettivamente un gradino sotto Messi e Ronaldo nel momento in cui se ne analizzano i risultati sportivi ma è molto, molto più carismatico degli inarrivabili fenomeni argentini e portoghesi. Sia per il carattere che per i goal che è stato capace di segnare in carriera, veri e propri inni alla fantasia e al genio.
Ibra, come Messi, è stato capace di segnare dribblando mezza squadra avversaria ma né la Pulce, né CR7 hanno mai segnato in rovesciata da quasi centrocampo. Perché immaginare certi goal significa essere dei folli visionari; realizzarli vuol dire essere Ibrahimović.
E poi, dicevamo, c'è il carisma, la personalità. Ibra ha sempre avuto un carattere unico nel panorama sportivo, una confidenza nei propri mezzi che ha sempre fatto rima con l'arroganza e la presuntuosità, e che a inizio carriera faceva storcere il naso a molti ("ma chi è questo sbruffone. Eppure cotanta tracotanza e supponenza hanno molte volte trovato conferma nei fatti, al punto che di fronte a certe uscite, oggi, si fa spallucce perché se le può permettere.
Ci riferiamo a frasi che chiunque non avesse un ego così spropositato arrossirebbe anche solo a pensarle, figuriamoci a dirle in pubblico. Tipo: "Milano non ha mai avuto un re. Loro hanno un Dio"; o ancora "Credi in Gesù Cristo?" (ad Ancelotti). "Sì". "Allora credi in me e rilassati". E poi: "Avete scritto che mi sono comprato l'ennesima Porsche. Lo smentisco, mi sono comprato un aereo, si fa prima".
Altre affermazioni invece ancorché roboanti, dicevamo, sono persino condivisibili: "Io non ho bisogno dei media, sono i media che hanno bisogno di Zlatan"; "Non sono un tipico ragazzo svedese ma ho messo la Svezia sulle cartine mondiali". Ad Amadeus, al festival di Sanremo: "È un onore per me essere qua ma è anche un onore per te avermi qua"; "Il fallimento non è il contrario del successo, è una parte del successo. Fare niente è lo sbaglio più grande che puoi fare". Non basta? E allora ricordiamoci come salutò il PSG: "Sono arrivato come un re, me ne vado come una leggenda".
Quella però alla quale vogliamo riallacciarci per iniziare a parlare del film Zlatan (finalmente, direte voi, e vi ringrazio della pazienza), tratto dell'autobiografia "Io, Ibra scritta" da David Lagercrantz e Ibrahimović stesso, è la seguente: "Si può togliere il ragazzo dal ghetto ma non il ghetto dal ragazzo".
A differenza di Messi e Cristiano Ronaldo, infatti, il campione svedese ha avuto un'infanzia molto difficile. Figlio di immigrati slavi (Sefik Ibrahimović, bosniaco, e Jurka Gravić, croata), Ibra galleggia pericolosamente sulla soglia della povertà, tra risse e furti. Principalmente di bicilette, una volta anche di un'auto, con gli stessi amici coi quali si divertiva anche a lanciare petardi nei giardini delle case altrui, salvo poi darsi alla fuga.
Ed è su questo lato teppistico che il film indugia particolarmente, forse anche troppo, insieme ai molti problemi familiari che hanno visto i suoi genitori separarsi quando Zlatan era un bambino, col tribunale che all'epoca decise di affidare il futuro campione al padre. Che però, ancorché orgoglioso del proprio figlio, che portava in palmo di mano e difendeva a spada tratta da allenatori e assistenti sociali, era un fallito che passava le giornate affogando nell'alcol i suoi dispiaceri e le sue ansie (per gli amici e i parenti rimasti a combattere la guerra dei Balcani).
Una brava persona, fondamentalmente, ma incapace persino di vestire il figlio, ed è indicativa la scena di quando, al suo primo appuntamento, Zlatan, che andava sempre in giro in tuta, chiede i soldi per una camicia al padre, perché non ne aveva manco una, e ancora un po' non riesce a comprala. Non solo: il padre non era neppure in grado di mettergli il cibo in tavola e Ibra a quei tempi era magrissimo, e per mangiare era costretto ad andare dalla madre. O a raccogliere lattine usate, rivenderle, e finalmente permettersi un hamburger.
Anche sulla soglia della miseria, anche con un sistema scolastico che ovviamente non gradiva la sua irrequietezza e la sua esuberanza, Ibrahimović era però sorretto da un'incrollabile autostima che si sarebbe potuta definire patologica non fosse che poi il tempo, solitamente galantuomo, ha voluto confermare coi fatti.
Il film indugia poi anche sulla figura di Mino Raiola, che qui ne esce molto meglio di quanto non sembri oggi a leggerlo sui giornali, rappresentandolo anzi come colui che mette in riga un arrogante adolescente con ben poca voglia di allenarsi, trasformandolo in un campione professionista.
Purtroppo a oggi non esiste alcuna opera biografica di Ibrahimović che ne proponga il completo arco narrativo. E se il libro "Io, Ibra" si ferma al passato semplicemente perché uscito nel 2011, sia il docufilm "Ibrahimovic: Diventare leggenda" del 2015 sia questo "Zlatan" si fermano al suo approdo alla Juventus nel 2004.
Ma da quel momento in poi, in quei diciassette anni durante i quali molti calciatori consumano la propria vita professionistica, Ibra ha vissuto una parte importante della sua interminabile carriera vestendo le maglie di Inter, Barcellona, Milan, PSG, Manchester United e Los Angeles Galaxy, prima di tornare al Milan dove, splendido quarantenne, ha appena tagliato il traguardo delle 400 reti segnate nei vari campionati in cui ha giocato (e contando anche quelle segnate nelle coppe europee e in nazionale, si giunge all'iperbolica statistica di 505 goal in 842 partite).
Mancano quindi diciassette anni di successi, di rivalità, di trasferimenti improvvisi, di gioie e dolori: non viene ad esempio raccontata la storia d'amore con Helena Seger, con cui è sposato dal 2001 e dalla quale ha avuto due figli, né la morte del fratello Sapko, avvenuta nel 2014. E restano preclusi possibili approfondimenti sul suo abbandono della Juve al momento della retrocessione in B, sul tentativo di vincere la Champions a Barcellona, divenuto poi fallimentare per il pessimo rapporto avuto con Guardiola, i successi al Milan e la vendita "a tradimento" al PSG da parte di Galliani, al quale non rivolgerà la parola per anni.
Da appassionati di calcio ci sarebbe piaciuto saperne qualcosa di più sulla sua esperienza al PSG e vedere narrata la caduta e la successiva ascesa quando, allo United, nel 2017 si ruppe il crociato. Un infortunio serissimo che, a 36 anni, per molti significava la fine della sua carriera. Ma non per lui, che dopo essersi rimesso in forma nella MLS americana è tornato al Milan divenendo fondamentale per il rilancio del Diavolo dopo anni scellerati e deprimenti.
Soprattutto, vorremmo che esistesse un libro o un film che ci spiegassero come sia possibile che un arrogante bulletto di periferia di Rosengård, alle porte di Malmö, che non si allenava mai, che la palla non la passava manco per sbaglio perché nessuno era bravo come lui ("se te l'avessi passata l'avresti persa", dice a un certo punto a un compagno) e che risolveva qualsiasi controversia a testate, sia riuscito a diventare oggi un uomo squadra, una chioccia per i giovani, un esempio di professionalità capace di prendere per mano un'armata Brancaleone e trasformarla in una pretendente al campionato.
Una squadra però incapace di essere competitiva in Champions, nel pieno rispetto di quella che ormai possiamo definire la sua maledizione, il tabù di un uomo capace di vincere uno spropositato numero di trofei ma che non è mai arrivato a sollevare né la Champions, né il Pallone d'Oro.
E nel domandarci quanti ne avrebbe portati a casa se fosse stato l'unico fenomeno della propria epoca, non possiamo che ricordare un'altra delle sue massime. Non ci riferiamo tanto a "Non ho bisogno del Pallone d'oro per sentirmi il migliore", perché conoscendo il personaggio siamo sicuri che ritenga di esserlo, quanto invece a "Se mi manca il Pallone d'oro? No, sono io che manco a lui".
Negli ultimi 12 anni il trofeo se lo sono spartiti Messi (6 volte) e CR7 (5 volte), con l'unica eccezione rappresentata da Modric: bravissimo, per carità, ma non lascerà nella storia del calcio una traccia come quella dello svedese. Un trofeo così importante non può permettersi d'ignorare un fenomeno del calibro di Ibra in 21 anni di professionismo, senza neanche mai farlo mai entrare nella top 3 (!), e la sua frase va letta in tal senso.
Ma avvicinandoci alla chiusura di questo articolo ci ricordiamo che in fin dei conti non siamo qui per celebrare un campione ormai alle ultime battute, ma per commentare il film a lui dedicato e il giudizio che ci sentiamo di dare è il più classico degli only for fans. Ancorché vera, la storia narrata in Zlatan rientra infatti nel solco delle decine di film sui disagi adolescenziali di giovani emarginati che poi riescono a giungere al successo contando sulle proprie forze e sul proprio talento.
Solo che qui la regia di Jens Sjogren è di maniera, così come il montaggio di Mark Henning. Il cast presenta volti e nomi sconosciuti quali Cedomir Glisovic (il papà di Zlatan), Merima Dizadrevic (la mamma), Emmanuele Aita (Mino Raiola) e Duccio Camerini (Luciano Moggi). Qualche dubbio poi lo desta non tanto lo Zlatan bambino (Dominic Andersson Bajraktari) quanto quello più maturo (Granit Rushiti), per via di una scarsa somiglianza con l'originale. Ma capiamo che nel momento in cui si debba selezionare un protagonista che sappia recitare, sia svedese, giochi a pallone e assomigli pure a Ibra, l'offerta non sia delle più abbondanti.
Nel suo essere only for fans, però, il film Zlatan commette l'errore di cadere là dove il fulmine ha già colpito due volte: perché chiunque sia così legato al campione svedese da andare al cinema a vedere questa pellicola, con tutta probabilità avrà già letto l'autobiografia e visto il precedente docufilm, e si troverà quindi nella produzione di Lucky Red e Universal Pictures ad approfondire principalmente le marachelle dell'Ibrahimović pre-Raiola.
Zlatan non è un film imperdibile ma è interessante per chiunque non conosca il passato di uno dei calciatori più talentuosi di tutti i tempi, e voglia vedere narrata al cinema una di quelle storie... da film. Con la differenza che stavolta un ragazzo del ghetto è riuscito a diventare un eroe. Per davvero.