Assassin's Creed, da un passato autoriale a un futuro tutto da scrivere
E a settembre scopriremo quale sarà il futuro di Assassin's Creed.
Non appena si pronuncia il nome di “Assassin's Creed” un brivido corre lungo la schiena di molti giocatori, ma per ciascuno ha un significato diverso. Chi ha conosciuto il franchise solo negli ultimi anni tende a identificare negli open world Ubisoft il bene oppure il male del gaming moderno, e non importa quale nuova meccanica venga inserita o quale vezzo artistico venga implementato: per alcuni sarà bellissimo, mentre per altri dimenticabile. Ma come si è arrivati fino a questo punto?
Con il brand di Assassin's Creed si sfiora un paradosso: se da una parte si tratta di titoli che basano la loro vita su avvenimenti storici e che portano il giocatore ad approfondirli anche attraverso l'ottimo Discovery Tour introdotto con Origins, dall'altra Ubisoft sembra faticare a leggere un'altra storia, quella sua personale, in un mercato videoludico che di situazioni simili ne ha viste a bizzeffe.
Basta citare Tomb Raider per rendersi conto di come la storia sia una spirale di eventi che si ripetono seppur con piccoli cambiamenti dovuti al contesto specifico. Tomb Raider e Assassin's Creed sono infatti accomunati dallo stesso destino, con una serializzazione intensa che ha portato presto a una saturazione agli occhi degli appassionati, con capitoli molto simili tra loro nonostante i cambi di ambientazione. I punti di rottura però con il pubblico sono avvenuti in tempi diversi: se critica e pubblico hanno iniziato a sentire il peso delle vicende di Lara Croft con The Last Revelation (quarto capitolo), per Assassin's Creed le cose sono andate diversamente, perché spesso la cura delle nuove ambientazioni storiche è riuscita in qualche modo a mettere una pezza alla ripetitività delle situazioni. Prima o poi però le cose si sono fatte più critiche per entrambi i franchise e curiosamente i problemi tecnici dovuti all'approdo su nuovi sistemi sono stati quelli che ne hanno sancito la crisi vera e propria.
Tomb Raider: The Angel of Darkness e Assassin's Creed: Unity sono infatti accomunati dallo stesso destino: hanno reso necessaria una ristrutturazione totale dei franchise, quella che in Ubisoft abbiamo visto con Origins, Odyssey e Valhalla, mentre con Tomb Raider attraverso i reboot. Ma cos'era Assassin's Creed prima di sentire il bisogno di un forte cambiamento?
L'originale capitolo del 2007 firmato da Patrice Désilets era semplicemente qualcos'altro rispetto ai capitoli contemporanei, un titolo con grossi spigoli sul lato del gameplay (come la maggior parte delle opere prime) ma con un fascino unico nel suo genere dovuto principalmente alla dicotomia narrativa tra presente e passato, uniti grazie alle memorie insite nel DNA. Questo geniale escamotage produsse una quantità di idee disarmanti e lanciò un brand che a conti fatti sembra mantenere ancora le caratteristiche per diventare immortale.
Erano i nostri 3000 anni di storia (in realtà anche di più se consideriamo la mitologia creata ad hoc, a cominciare dagli Isu) sviscerati in lungo e in largo, con un complotto lungo come il mondo tra Templari e Assassini. Altaïr Ibn-La'Ahad divenne presto iconico come Lara Croft e la moda del parkour esplose in tutto il mondo, per non parlare poi di Ezio Auditore e della sua italianissima verve che gli fece conquistare i gradini più alti sul podio dei personaggi più amati.
Ad Assassin's Creed volente o nolente dobbiamo tanto e molto di quello che vediamo nei nostri amati videogiochi deriva dalle ricerche effettuate dal team di sviluppo, dai sistemi di caricamento delle varie zone fino alla IA che gestiva le folle; ma come accade con ogni grande moda, alla fine lo sfruttamento delle meccaniche sino all'eccesso ha portato alla situazione che ancora oggi rende molti videogiocatori allergici alla formula open-world.
Il “nulla è reale, tutto è lecito” ha presto lasciato spazio solo alla seconda parte della frase e la nuova trilogia, seppur capace di raggiungere straordinari successi commerciali, rimane distante anni luce dalle idee originali. Il ritorno alla storia contemporanea con Layla Hassan è stato indubbiamente gradito, ma ha aperto delle enormi falle di coerenza ludo-narrativa. In un certo senso si potrebbe dire che gli ultimi capitoli della saga hanno pescato spesso da ciò che andava per la maggiore nella cultura di massa, tra ispirazioni come quella vichinga e meccaniche come “maggiore personalizzazione”, sistemi di role play, dialoghi a scelta multipla, customizzazione dell'equipaggiamento e così via. È proprio con questa nuova trilogia che, per quanto si sia dimostrata di successo, l'autorialità ha iniziato a latitare.
Quello di autorialità è un concetto molto abusato: per fare chiarezza potremmo considerarla come la percentuale delle scelte del director o del team incaricato che hanno passato la scrematura del publisher. Più questa percentuale è alta e più possiamo parlare di autorialità: un esempio lampante di opera autoriale è sicuramente Death Stranding, con Hideo Kojima che libero da vincoli ha potuto esprimere quasi senza ostacoli la sua idea di videogioco, fregandosene dei trend. Per una serie decennale o comunque per una che poggia su basi narrative piuttosto granitiche, l'aggiunta di meccaniche slegate dal contesto deve essere vagliata con attenzione e se cozza con tutto il resto dovrebbe essere abbandonata. O almeno questo dovrebbe accadere nel mondo ideale perché nella realtà spesso non funziona così.
Un esempio lampante arriva da Respawn Entertainment con il suo Star Wars Jedi: Fallen Order che, ispirandosi a Sekiro: Shadows Die Twice, ha aggiunto la meccanica dei “falò” tanto cara a From Software. Dunque, ogni tanto capita di meditare in questi punti di controllo, ricaricare l'energia e magari sbloccare un potenziamento, il che è ok, salvo però che tutti i nemici sconfitti tornano in vita senza un perché. Nel contesto pluridecennale di Star Wars, il reset della realtà non è mai stato preso in considerazione e non basta certo che questa meccanica funzioni dal punto di vista del gameplay. Manca un contesto che poteva tranquillamente essere inserito con una piccola cutscene in cui navi da sbarco piazzavano di nuovo i soldati nelle loro postazioni all'uscita dalla meditazione.
Questo esempio può essere ricondotto all'ultima trilogia di Assassin's Creed nella quale meccaniche provenienti da altri franchise sono state inserite appunto senza contesto. Odyssey ha per esempio aggiunto i dialoghi a scelta multipla in una narrazione che prevede la rimembranza dei ricordi dei propri antenati, ed è un elemento che semplicemente non dovrebbe esistere. Desmond e Layla (e di conseguenza noi) sono spettatori di qualcosa che è già avvenuto, senza alcuna possibilità di influenzare il passato. Visto che è anche possibile mentire al proprio interlocutore poi, la contraddizione aumenta a dismisura.
A un certo punto, si è deciso di implementare in Assassin's Creed: Valhalla anche il cambio di genere del protagonista, con stesso backgroud narrativo e vicende vissute: nulla da dire sull'integrazione di questa scelta, che ovviamente tenta di rispondere alle esigenze di libertà e di rappresentazione videoludica sempre più necessarie. Ma questo aspetto va in contraddizione e con lo storico della saga e con l'idea di una linea autoriale chiara, addirittura riscrivendo le regole di Assassin's Creed: Origins, uscito solo tre anni prima.
In Origins infatti, esisteva qualcosa di simile ma con implicazioni radicalmente diverse. Layla Hassan decide di rivivere la storia di Bayek utilizzando il suo DNA, ma per scoprire di più sulle vicende, a un certo punto vira sulla moglie Aya, rivivendone i ricordi in prima persona. In questo caso, Bayek e Aya sono due personaggi distinti che hanno ovviamente due DNA diversi, background e storie diverse così come anche scopi diversi. Quella che era una caratteristica autoriale è dunque diventata una scelta di customizzazione che sì persegue scopi nobili ma che inevitabilmente mina alla profondità della caratterizzazione dei personaggi.
Si sono venute a creare, in sostanza, tre categorie di giocatori: la prima è rappresentata dai fan duri a morire del franchise, coloro che cercano un'avventura leggera fra le pieghe della storia e ancora adesso, dopo decine di capitoli, adorano l'esplorazione di quelle mappe sconfinate; in seconda battuta ci sono coloro che sono diventati allergici alla formula open-world in stile lista della spesa, e vedono nell'opera un trionfo del more of the same; infine ci sono i fan più esigenti della prima ora, quelli che hanno adorato da sempre Assassin's Creed ma che vedono nel sopracitato calo della qualità autoriale le ragioni del proprio dissenso.
Come rivelato dall'Assassin's Creed Celebrations, a settembre sapremo finalmente a quale destino andrà incontro la saga, e gli occhi di Ubisoft sembrano essere puntati su Assassin's Creed: Infinity. Questo progetto ha tutte le caratteristiche necessarie (se confermate) per riportare in auge il brand: avventure più contenute e una serializzazione che però, questa volta, vedrebbe l'integrazione ottimale delle meccaniche di gioco con l'epoca visitata. Si sa ancora poco su questo progetto e le uniche informazioni che abbiamo derivano dalle rivelazioni di Jason Schreier e dalle dichiarazioni del CEO di Ubisoft Yves Guillemot: si tratterebbe di un videogioco live-service, con esperienze dedicate a singoli protagonisti collocati in diverse epoche storiche. Se vogliamo, un'Assassin's Creed definitivo.
Questo futuro si sposerebbe perfettamente con l'idea iniziale della saga immaginata da Patrice Désilets, un viaggio continuo nella nostra storia, sicuramente romanzata, ma ricca di fascino e in cui il giocatore diviene parte integrante degli avvenimenti più importanti dell'umanità. Assassin's Creed: Infinity, come da nome, potrebbe vagliare qualunque momento della storia e non solo, portandoci anche in un passato remoto dove Adamo ed Eva cercavano la libertà nei confronti della civiltà ancestrale Isu. La buona riuscita del progetto, d'altra parte, passa da quanto Ubisoft sia disposta a investire risorse e nuove idee per rendere la propria visione omogenea nelle meccaniche principali e soprattutto coerente con i principi della saga. Ma quando il brand in questione porta un nome immortale come quello di Assassin's Creed, la speranza è l'ultima a morire.