Benvenuti nell'era del grande compromesso cinese - editoriale
La Cina è terra di ricavi e meta ghiotta per tutti i produttori. Ma anche terreno di censura.
L'abbiamo definita la "El Dorado dei videogiochi": è la Cina, terra promessa di ricavi in ogni settore; i videogiochi sono soltanto l'ultimo esempio. Il recente caso che ha coinvolto Tencent e PlayerUnknown's Battlegrounds, però, dovrebbe far riflettere almeno un po'. In breve: il colosso cinese voleva pubblicare PUBG in Cina; per mesi ha atteso che la commissione governativa approvasse la monetizzazione del gioco, certificazione che però non è arrivata.
Tencent ha allora deciso di arrendersi: PUBG non sarà pubblicato in Cina nonostante il periodo prolungato di prova. Al suo posto è arrivato Game for Peace, che è subito piaciuto al governo, che ha già fornito l'approvazione per generare ricavi dal titolo mobile. Gli utenti impersonano membri della Chinese Air Force, l'aviazione cinese; l'impatto dei proiettili ricorda tanto quello del paintball e le persone non "muoiono", ma salutano il loro avversario e poi spariscono nel nulla. Per piacere al governo locale, PUBG avrebbe dovuto essere talmente snaturato (era, per esempio, ritenuto troppo violento) che tanto è valso fare un gioco nuovo.
Una situazione paradossale: i grandi editori (Nintendo, Activision Blizzard, Ubisoft, etc) fanno a gara per portare il proprio software in un mercato (la Cina) che non si fa problemi a costringere i produttori stessi a cambiare elementi così pervasivi dell'esperienza e della grafica che definirla "censura" non è affatto clamoroso. La Cina, come in tanti altri settori della società, vuole controllare che i videogiochi venduti nel suo mercato non creino problemi e così ha istituito varie commissioni che regolamentano i contenuti che possono o non possono essere inseriti nei videogiochi; ora i giochi devono essere coerenti con "i valori sociali" cinesi.
Nonostante questa situazione, gli editori vogliono la Cina a tutti i costi: Blizzard lavorerà con NetEase per sviluppare Diablo: Immortal su smartphone e Nintendo sta collaborando con Tencent per portare Switch, per esempio. Nei mesi scorsi Ubisoft era arrivata a togliere riferimenti a sangue, sesso e gioco d'azzardo in Rainbow Six Siege in tutto il mondo pur di compiacere il mercato cinese. Dopo le prevedibili polemiche, la casa francese è tornata sui suoi passi.
Non è ovviamente soltanto una situazione figlia dell'industria videoludica. Per fare un esempio, Google sta lavorando a una versione del suo motore di ricerca censurato pur di riuscire ad arrivare in Cina. Una decisione commerciale che ha provocato forti dissapori all'interno della stessa Google e proteste da parte dei dipendenti. L'industria videoludica, per ora, non sembra ancora essersi posta il problema: serve rivedere il contenuto violento per ricevere il nulla osta per la commercializzazione cinese? Così sia.
Sia chiaro, non è una tendenza recente. Per Dota 2 e World of Warcraft, negli anni scorsi, è stato corretto il tiro (per esempio rimuovendo i teschi) così che i due giochi potessero essere lanciati in Cina. Con "l'occidentalizzazione" delle grandi società cinesi - in primis Tencent e NetEase - la Cina non è più un'isola commerciale ma è un aperto terreno di scontro che, ormai, è quotidianamente agli onori della cronaca. Tale situazione, insomma, è ormai sotto gli occhi di tutti.
Non sarebbe il caso, allora, che le società non assecondassero tale approccio commerciale, ma anzi lo boicottassero? Altrimenti viene legittimato un sistema di censura, di "estesa revisione" per venire incontro ai dettami sociali e politici del regime cinese.
Ma non vogliamo finire nel moralismo spiccio; saremmo ciechi a pensare che un tale boicottaggio potrebbe mai accadere. Viviamo in un momento storico in cui anche quando i ricavi dei grandi editori crescono, centinaia di persone vengono lasciate a casa in ristrutturazioni interne ormai troppo frequenti. Perché gli azionisti vogliono la crescita costante; esigono che, nonostante i già grandi numeri, le aziende quotate in borsa continuino a macinare crescita, ancora meglio se in doppia cifra e senza mai rallentare. Una missione esagerata e che ha partorito soluzioni di monetizzazioni di vario genere: prima i contenuti aggiuntivi (ormai una normalità), poi le "loot box" e i giochi come servizio.
Così se nasce l'opportunità di entrare in un mercato che da solo vale quasi 31 miliardi di dollari (alcune stime di Niko Partners parlano di 41 miliardi nel 2023), qualunque società quotata in borsa tenta "il colpo grosso". Perché significa un bacino di utenti nuovo, ampio e profittevole; significa poter mantenere stabile la crescita del fatturato. Le aziende videoludiche dovrebbero perdere l'occasione di guadagnare decine (se non centinaia) di milioni di dollari per una battaglia morale dalla dubbia utilità? Estremamente improbabile.
Ecco quindi l'era del grande compromesso cinese: i soldi sono soldi, non importa quel che serve fare.