Biometria e videogiochi
Stefano Gualeni spiega le frontiere del game design.
Abbiamo avuto risposte differenti. Blizzard, ad esempio, ha dimostrato poco interesse, anche a seguito di alcune ricerche condotte tra il 2006 e il 2008 che hanno dimostrato come l'utilizzo di sistemi biometrici possa essere ridondante, poiché è possibile raggiungere gli stessi risultati, investendo più tempo e più risorse tradizionali, senza creare un laboratorio di misurazioni interno e acquisire le relative figure professionali. Il ricorso alla biometria con questa tecnologia e con questa conoscenza della materia non apporterebbe i benefici necessari.
Blizzard è interessata a vedere come funziona il tutto, ma non ha posto interrogativi sulla sua effettiva applicabilità: sono state fatte domande prevalentemente di carattere tecnico, ma da un punto di vista olistico non c'è stato un interesse particolare per iniziare un nuovo trend. Valve, dal canto suo, continua ad investire: lo stesso Mike Ambinder, psicologo sperimentale che si occupa di tali aspetti a tempo pieno, mi ha raccontato che Gabe Newell nutre un profondo interesse per l'approccio biometrico ai videogiochi, ed è convinto che una conoscenza più approfondita delle reazioni del pubblico sia fondamentale per Valve stessa.
Tanto la ricerca accademica quanto Valve con Ambinder stanno focalizzando i propri sforzi nel tentativo di trasformare questi strumenti che noi stiamo utilizzando a scopo predittivo come input devices capaci di modificare il gioco in tempo reale.
Dal design biometrico, quindi, l'attenzione sembra essere passata al real-time bio-feedback: sono già stati proposti due titoli che, con buona probabilità, usciranno nel corso del prossimo anno e saranno dotati di un sensore per la misurazione galvanica della pelle (Galvanic Skin Conductance). Anche Electronic Arts, vale la pena ricordarlo, continua una politica di investimenti sia industriali sia accademici nella biometria, proprio come stiamo facendo noi.
La creazione di un design è un aspetto soggettivo. Io non vedo la biometria come una panacea in grado di risolvere ogni problema del game design, quanto piuttosto come qualcosa che permette di avere una comprensione più approfondita di determinati aspetti del gioco che interessano l'utente in maniera particolare. Ciò nonostante, l'ultima parola spetta sempre a lui: sarà il designer, una persona, a decidere cosa osservare, che tipo di domande porre alle metodologie biometriche e, alla fine del processo, prendere decisioni e contromisure.
Proprio per questo motivo non esiste il rischio di incappare nell'oggettivazione: da un punto di vista teorico essa è presente ma, fino a quando non esisteranno macchine che progettano per macchine, non arriveremo mai a un'oggettivazione dell'intero processo. È un concetto che si avvicina all'ontologia oggettiva di Ian Bogost (ricercatore e game designer al Georgia Institute of Technology, ndR), ma è comunque ben distinto dal nostro ambito: fintanto che un game designer umano crea per esseri umani, oggetti come la biometria resteranno semplici tool teorici o sperimentali. Pertanto, non prevedo che questo possa trasformarsi in un problema di etica o di filosofia della tecnologia.