Capone - recensione
Da più in alto si cade….
Ci sono personaggi che restano cristallizzati nell'immaginario collettivo in certo momento della loro vita, per certe azioni e frasi a loro attribuite. Se pensiamo a un gangster come Al Capone, è passato alla storia per la strage di San Valentino e per essere stato il primo malavitoso a essere incastrato grazie a motivi fiscali, in assenza delle prove per condannarlo per i numerosi, feroci delitti commessi.
Molti lungometraggi hanno raccontato la sua carriera, dal film del '59 con Rod Steiger a 'Il massacro del giorno di San Valentino', in cui era interpretato da Jason Robards. Ma per la maggior parte di noi Capone è inchiodato nella memoria con le fattezze di Robert De Niro, mentre sibila all'agente Ness " sei solo chiacchiere e distintivo" nel film 'Gli Intoccabili' di Brian De Palma.
Potrà quindi spiazzare ritrovarselo ben diverso nel film Capone, scritto e diretto da Josh Trank, che ricordiamo per il bell'esordio con Chronicle, in cui riscriveva una storia di eroi dotati di poteri speciali che in realtà erano tre ragazzi più vicini allo spirito di Stephen King che ai personaggi Marvel o DC, una storia che declinava con originalità il disagio e l'incomunicabilità degli adolescenti rispetto ai propri simili e al mondo degli adulti. Meno riuscita la sua visione dei Fantastici 4 nel film del 2015.
Il Capone che incontriamo ha 48 anni ma ne mostra venti di più, piegato dalla sifilide che aveva contratto prima dei 15 anni, e da un paio di ictus. Rilasciato dopo sei soli anni di galera, sta scontando dei domiciliari di lusso nella sua sontuosa villa a Palm Springs, Florida, accudito dalla moglie (Linda Cardellini), dal figlio e da un gruppetto di fidi amici di gioventù.
Ma le cose vanno malissimo: i soldi cominciano a mancare e la villa viene lentamente spogliata, le statue e gli arredi venduti per coprire le ingenti spese, la manutenzione, le guardie del corpo e il cibo per tutti. Fuori staziona stabilmente un furgone dell'FBI che intercetta tutte le comunicazioni telefoniche. E c'è anche un dottore (Kyle MacLachlan in una veloce comparsata), ricattato dai federali che cercano di estorcergli subdolamente le informazioni.
Perché ancora tanta attenzione? Perché si favoleggia che Capone abbia nascosto da qualche parte 10 milioni di dollari, che fanno gola a molti: al Fisco americano, ai famigliari più stretti e ai collaboratori. Tutti trarrebbero vantaggio da una rinnovata ricchezza ma il problema è che Capone, nelle nebbie della sua mente lesionata, si ricorda i soldi ma non il luogo in cui (forse) li ha nascosti.
Della figura del mostruoso gangster si impadronisce Tom Hardy in una delle sue interpretazioni più caricate. Hardy, quasi sempre bloccato su una sedia da paralitico, finché riesce a parlare gracchia, ringhia, ruggisce, mugugna (infilando qualche battuta in un Italiano con un pessimo accento, va detto), sbuffa fumo dal sigaro perennemente infilato nell'angolo della bocca.
E poi, dopo l'ennesimo ictus, gorgoglia, grugnisce, borbotta, sbava, rantola, pure schifosamente incontinente, con un trucco da Joker a renderlo sfatto, pallido, gli occhi iniettati di sangue e di un'intima, insopprimibile malvagità.
Ha scoppi di improvvisa violenza, qualcuno reale, qualcuno sognato, mentre si dibatte nel suo corpo lesionato, atavicamente diffidente di ogni situazione o persona, ostile a un mondo che ha percorso come un tunnel degli orrori costruito a sua immagine e somiglianza, un mondo che però non è mai stato migliore di lui.
Nei lampi delle allucinazioni del suo lungo delirio rivive sanguinose scene della sua vita, come fossero programmi che arrivano dalla radio, o come se lui entrasse sul set di un film che viene girato in diretta e che rivive sbigottito. E "vede gente morta" (nel film ci sono veloci citazioni di Shining e Scarface), gente di cui ha causato la morte per crescere, mantenere il potere.
Rivede vecchi "soci in affari" (come Matt Dillon, che sarà protagonista di uno degli incubi più agghiaccianti), senza mai ricordare bene cosa sia realmente successo e cosa solo immaginato. E ogni tanto il telefono suona e forse all'altro capo c'è un figlio mai riconosciuto.
Trank riscrive la caduta di un orco, senza mai cercare di impietosire sulla triste sorte del potente decaduto, illustrando un arco di vita tragico, costellato di shakespeariani conflitti, di lotte per il potere, stragi, tradimenti, vendette. Com'è arrivato a tanto il tenero piccino, che ogni tanto Capone sembra intravedere? Come si è tramutato nel mostro deforme dentro e fuori, che ci siamo trovati a studiare come un insetto morente?
Ci è arrivato dalla miseria dei genitori, emigrati miserrimi in una società che li aveva sempre messi ai margini, lasciando loro solo la delinquenza per sopravvivere (come per tante minoranze). E dopo tanta strada in quella direzione, la distanza dalle origini è tale da renderle simili a un sogno lontano, sepolto sotto mucchi di cadaveri e litri e litri di sangue.
Eppure la lunga agonia del personaggio non riesce a coinvolgere e solo nel finale, grazie anche all'irrompere della bella colonna sonora di El-P, si prova in un attimo la sensazione di quello che il film avrebbe potuto essere e non è stato, a causa dei suoi due difetti principali: la mancanza di statura epica del protagonista, che rende arduo immedesimarsi nella sua agonia, e la compiaciuta caratterizzazione di Tom Hardy, godibile ma eccessiva.
Disponibile in streaming a pagamento su alcune note piattaforme, fosse uscito in sala, dubitiamo che questo ritratto avrebbe incontrato il favore del pubblico. Non fosse per la presenza di un attore come Tom Hardy, molto seguito da una vasta schiera di fan.