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Captain Marvel - recensione

“L'umorismo è distruttivo”.

"April 24 is coming" (cit.). Il momento in cui tutto sarà rivelato, con Avengers: Endgame, si sta avvicinando. Per tenerci tranquilli nell'attesa, Disney ci somministra uno zuccherino, un prequel/spin-off di nome Captain Marvel, come si mostrava nel finale di Infinity War. Ossia Carol Denvers, controparte femminile del primo, storico Capitano.

Il personaggio risale agli anni '60 ma questa rilettura è basata sulla serie del 2012, scritta da Kelly Sue DeConnick con disegni di Dexter Soy. Il personaggio sulla pagina scritta è stato alternativamente uomo e donna, niente di più adatto ai tanti "ripensamenti" sociali degli ultimi anni. Si è scelto di incarnarla in un'attrice non particolarmente atletica, non molto simpatica, non bellissima, non ancora notissima, Brie Larson.

Scelta azzeccata almeno quanto a fisiognomica, perché il personaggio è quello di una giovane donna molto particolare, ruvida e aggressiva, che conosciamo con il nome di Vers, combattente d'élite dei Kree nella guerra contro gli storici nemici Skrul, malvagi mutaforma. Un soldato indefettibile, forgiato dal carismatico Yon-Rogg (Jude Law), una vera macchina da combattimento con la mente percorsa però da lampi di ricordi di cui non si sa dare spiegazione.

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Ma durante una disastrosa missione, Vers finisce sul nostro pianeta nel 1995, chiamata così a compiere un percorso che la porterà a riallacciarsi a dove tutto era cominciato, decifrando così i suoi misteriosi incubi, ridisegnando il panorama dei suoi alleati, dei suoi veri nemici, ridiventando la Carol Denvers che era, mentre acquisirà tutti i poteri che la renderanno Captain Marvel.

Della trama non possiamo dire molto, su preghiera della Disney e perché sarebbe ingiusto nei confronti di chi andrà a vedere il film. Diremo che una volta di più il messaggio è che solo cadendo e rialzandosi che ci si forgia una personalità, soprattutto se si tratta di donne che aspirano a trovare il loro posto in un mondo di uomini. E forse potranno essere donne che porranno fine alle guerre degli uomini.

Il cast è ricco di facce note. Ben Mendelsohn recita quasi tutto il film sotto una maschera verde un po' troppo gommosa (stile Star Trek degli anni belli). Fra i suoi scherani si riconosce uno splendido Djimon Hounsou. Annette Bening è una scienziata illuminata, perno della vicenda. L'amica umana di Carol, collaudatrice pilota come lei (accenno alle discriminazioni nei confronti delle donne in ambito militare), è la poco nota Lashana Lynch. Si rivede Lee Pace, sempre irriconoscibile sotto il trucco per diventare Ronan, l'alto ufficiale Kree, avido di Tesseract. E soprattutto dardeggia verdissime occhiate kreeliane un Jude Law che mai come oggi, a 46 anni, è stato tanto smaccatamente seduttivo.

Una formosa Capitana.

La presenza di un gatto non faccia temere un uso alla Facebook di un mycino, perché si tratta di un personaggio di notevole spessore, che compirà un'azione determinante per il prosieguo della storia. Che, in un continuo e godibile riallaccio con i film precedenti, serve essenzialmente a introdurre un ulteriore eroe nella galassia Marvel, a spiegare tante tante cose, fra cui anche l'origine di certi nomi. E anche perché abbia perso un occhio l'agente Nick Fury (un Samuel Jackson ringiovanito plasticosamente dalla CG, così come Clark Gregg che è l'agente Shield Phil Coulson, agli inizi della sua carriera).

Alla sceneggiatura ha messo mano parecchia gente, fra cui anche i due registi, il maschio Ryan Fleck, la femmina Anna Boden (lo sottolineiamo, perché tutta l'operazione è accuratamente dosata). La colonna sonora, poco incisiva, è di Pinar Toprak (donna pure lei), e offre anche un sacco di belle canzoni, hit commerciali del periodo.

Certo viviamo tempi particolari e a pensar male ci si mette un attimo. Ma se davvero Disney/Marvel (o Mar-vel, chi vedrà capirà) ci tenevano a fare anche loro un film con un'eroina al femminile come protagonista assoluta, ci si sarebbe aspettato un po' più spessore, una maggiore capacità di coinvolgimento. Nessuno ci chieda per favore di appassionarci alle ambasce di questo personaggio, che piace di più quando fa la badass che quando cerca di comunicare il suo spaesamento o qualche altro rovello affettivo, e trova i suoi tempi migliori quando si scambia battute con un Nick Fury, che è la parte più scherzosa del film. E l'invito a non farsi fuorviare dalle emozioni, rivolto da Yon-Rogg (Law) alla protagonista, finisce per colpire lo spettatore.

Il maestro e l'allieva.

Ci sono due scene supplementari, a metà e alla fine dei titoli di coda, e il sobbalzo che la prima provoca serve a misurare il distacco emotivo fra un film come questo e quelli degli altri Avengers. Perché Captain Marvel trova una sua ragion d'essere nel continuo incrocio con tutti gli altri episodi di una serie di culto, per cui basta un ammiccamento, una battuta, per mandare in visibilio il pubblico degli appassionati. Che parimenti continuano a bearsi di ogni citazione di memorabilia d'epoca (qui anni '90 al posto degli ormai sfruttatissimi '80, con cerca-persona, internet cafè a 56kb, sistemi operativi lentissimi, Blockbuster, telefoni fissi e il Tesseract che finisce in una valigetta di Fonzie).

Ma se Stan Lee, dopo essere stato inglobato nella sigla di apertura, nell'ennesimo cameo ci dice "fidati di me, vero credente", come sottrarsi al richiamo? Quindi ci facciamo riprendere per mano ancora questa volta e portare a spasso negli universi, a farci ingannare, a illuderci, a ravvederci, a volare e a sparare, a fare battute, a lottare e a combattere. Per emozionarci però, per emozionarci veramente, non resta che aspettare il 24 aprile.