Il combattimento a turni è veramente morto nei videogiochi AAA?
Lo stato del combattimento a turni dopo l'abbandono di Final Fantasy.
Nei primi del 2016, ovvero dieci anni più tardi rispetto al momento il cui il primo trailer di Final Fantasy Versus XIII fu mostrato al pubblico sui palchi dell'E3, il mondo dei videogiochi fu scosso da una notizia inaspettata: il quindicesimo capitolo numerato nella saga di Final Fantasy avrebbe abbandonato ogni interpretazione dello storico sistema di combattimento a turni per abbracciare una formula d'azione volta a rinnovare l'intramontabile formula del brand.
Fu un duro colpo da digerire, perché se il mercato – specialmente quello orientale – era stato costellato per decenni da opere che abbracciavano sistemi a turni, quella di Final Fantasy era senza ombra di dubbio la serie che ne faceva uso più diffusa in assoluto sulle sponde occidentali, grazie al numero astronomico di copie piazzate, alla moltitudine di capolavori sfornati dagli artisti dietro il brand, e soprattutto a una nutritissima community di appassionati sempre attiva sul fronte della discussione.
La notizia, inizialmente, divise le file dei fan: da una parte c'era chi avrebbe pagato per ricevere un'eternità di titoli del genere interamente fondati su variazioni del combattimento a turni – fossero esse ATB, a turni strategici o sistemi Gambit – mentre dall'altra c'erano coloro che mal digerivano quel tipo di impostazione ma l'accettavano in ragione delle straordinarie storie che di volta in volta l'accompagnavano.
Le ragioni per cui Square-Enix optò per l'abbandono dei sistemi di combattimento a turni sono piuttosto evidenti: reduce dalla cattiva ricezione del tredicesimo capitolo, nonché catturata dal vortice delle lamentele fiorite attorno al rilascio della prima versione del suo MMORPG, la compagnia non stava attraversando certo un momento di grazia, e molti dei procedimenti creativi erano finiti sotto al microscopio.
Bisognava guardare, forse per la prima volta, anche verso la concorrenza, e la concorrenza dell'epoca raccontava una storia che era ben diversa dal passato roseo del combattimento a turni: i titoli che andavano per la maggiore erano RPG d'azione ambientati in vasti mondi aperti, e la loro sembrava l'unica formula in grado di replicare i fasti che le avventure in single player avevano vissuto fra i '90 e i primi 2000. Già, perché nel frattempo era esploso il gaming online, e le classifiche dei titoli più venduti erano costellate delle sole produzioni orientate al multiplayer.
All'epoca Square-Enix affermò che il Giappone era stato travolto dall'insorgere del gaming mobile e dalla crisi del mercato console, di conseguenza quella di virare verso la formula d'azione fu una scelta pensata e ricamata per rivolgersi alle comunità di giocatori occidentali, che storicamente erano molto distanti sì dalla tradizione a turni JRPG, ma anche e soprattutto dal mercato per smartphone.
Alla fine Final Fantasy XV raggiunse gli scaffali dei negozi, e si dimostrò una creatura ancor più divisiva rispetto alla stessa caratteristica del combattimento a turni, deludendo e soddisfacendo in egual modo gli oltre 15 milioni di videogiocatori che decisero di dargli fiducia. Diversi veterani criticarono la nuova impostazione open-world e la deriva d'azione, mentre altrettanti giocatori – fra cui parecchi nuovi arrivati - accolsero a braccia aperte le novità accettando tacitamente la nuova identità del brand.
Quello che c'interessa discutere, d'altra parte, è il destino che toccò i sistemi di combattimento a turni: dopo l'abbandono da parte della serie che per prima riuscì ad esportare in Europa e nel resto del mondo una ricchissima serie JRPG legata a doppio filo con questa meccanica, sarebbero scomparsi per sempre dal mercato dei “grandi”?
La risposta a questa domanda si scoprì essere un secco no, ma la situazione che si venne a delineare a partire da questo spartiacque si rivelò estremamente complessa e sfaccettata. Due mesi prima del lancio di Final Fantasy XV, ovvero a Settembre del 2016, vide luce un altro JRPG, uno che non aveva la benché minima intenzione di discostarsi dalla tradizione turnistica e che, infine, riuscì anche a vincere il The Game Award per il miglior RPG “alla faccia” di FFXV. Quel titolo, ovviamente, era Persona 5 di Atlus.
Persona 5 riuscì a dimostrarsi un titolo estremamente innovativo pur non rinunciando a formule di gameplay considerate vetuste, andando all-in sull'identità da JRPG e modernizzando praticamente ogni singola componente dell'amalgama in modo da regalare agli appassionati un'esperienza fresca, originale e artisticamente scoppiettante. La reception si rivelò oltremodo positiva, la comunità era coesa rispetto alle divisioni che avrebbero caratterizzato Final Fantasy XV, ma alla fine il titolo – per quanto celebrato – non riuscì nemmeno a sfiorare (3 milioni di copie vendute) gli straordinari risultati raggiunti dal titolo di bandiera di Square-Enix (oltre 10 milioni di copie vendute).
Di contro, non deve assolutamente passare inosservata l'incredibile esplosione che ha caratterizzato le grandi produzioni di stampo orientale in seguito al lancio di FFXV, una sorta di nuova età dell'oro per gli sviluppatori nipponici, che proprio in quegli anni riuscirono a sfondare nel mercato occidentale attraverso progetti come Nier: Automata e Monster Hunter: World, opere estremamente vicine alla tradizione giapponese eppure lontanissime da qualsivoglia sistema basato su turni, proprio come la casa di Tokyo aveva previsto a monte del cambiamento.
A meno di un anno di distanza dall'esordio di Final Fantasy XV, vide luce Divinity: Original Sin II di Larian Studios, probabilmente uno fra i migliori RPG occidentali a turni mai realizzati, capace di trascinare nel suo vortice puramente ruolistico orde di giocatori alieni a questo genere di ispirazione, ma soprattutto di ricamare un combat system praticamente perfetto per il contesto di riferimento.
Il dato più interessante di questa release risiede nella gigantesca forbice che ancora oggi separa le vendite dell'opera di Larian Studios da quelle della saga Pillars of Eternity di Obsidian, che nell'inseguimento della medesima ambizione ha optato per un sistema in tempo reale. Nel sottobosco CRPG, osservando anche le opzioni presenti in Pathfinder: Kingmaker, questo sistema sembra aver ormai soppiantato l'ispirazione classica in controtendenza con le previsioni di Square-Enix, tanto che sarà adottato anche nella prossima iterazione di Baldur's Gate.
Anche in questo caso, d'altra parte, è bene evidenziare che stiamo parlando di una produzione AA di natura indipendente, pertanto appartenente ad un sottobosco creativo nel quale il combattimento a turni non solo non ha conosciuto alcun genere di crisi, ma ha addirittura vissuto un vero e proprio rinascimento creativo, diventando protagonista di alcune fra le neonate serie più acclamate dalla critica (Into the Breach, XCOM, Darkest Dungeon, insomma, ci sarebbe veramente l'imbarazzo della scelta). Square-Enix, dal canto suo, non ha mai nascosto di aver inseguito questa scelta in risposta ai netti mutamenti del mercato AAA.
Più incisiva ai fini della discussione, ovviamente, è la release di Dragon Quest XI: Echoes of an Elusive Age, undicesimo episodio della storica saga RPG partorita dal ramo “Enix” dell'azienda, che si dimostrò capace di battere tutti i record registrati dalla serie in termini di diffusione, raggiungendo più case rispetto a quante ne avesse mai avvicinate nelle regioni occidentali, cavalcando l'onda lunga che stava spingendo con prepotenza diverse produzioni “conservatrici” verso il Nord America e l'Europa. Il tutto, ovviamente, senza discostarsi minimamente dalla più pura e candida tradizione JRPG.
A onor del vero, che l'impostazione legata al combattimento a turni sarebbe rimasta una caratteristica fondante nel tessuto del JRPG era una considerazione piuttosto ovvia, così come era ovvio che ormai da anni la saga di Final Fantasy non rappresentasse più l'anima tradizionale del succitato genere, essendo divenuta troppo grande, troppo ricca e troppo famosa per accontentarsi di restare ancorata ad una nicchia, per quanto si trattasse di una nicchia dorata.
Due anni più tardi fu il momento del ritorno di Fire Emblem su una console ammiraglia Nintendo, e ancora una volta il suo combattimento tattico a turni finì nell'occhio del ciclone del mercato AAA grazie a Three Houses, opera che scardinò i record imposti dalla saga piazzando tre milioni di copie in tutto il mondo (numeri ancora molto lontani da quelli delle release PlayStation di Final Fantasy). E questa release, in concomitanza con quella di Yakuza: Like a Dragon nel 2020 che fu invece capace di vendere 2.8 milioni di unità, rappresenta il gancio perfetto per tornare sulle sponde dell'ormai lontano Final Fantasy XV.
L'intuizione di Square-Enix di abbandonare i sistemi di combattimento a turni si è probabilmente rivelata una corretta lettura del suo mercato di riferimento: quella di Final Fantasy è una saga che punta all'eccellenza, ma che soprattutto mira a raggiungere metriche di diffusione aliene a gran parte degli attori in circolazione. Sì, è vero, i sistemi di combattimento a turni hanno continuato a prosperare in seguito all'esordio dell'avventura di Noctis, e sono persino riusciti a tratteggiare i contorni di titoli che oggi sono considerati alla stregua di capolavori, ma le opere che li hanno adottati non sono mai riuscite a sfondare il muro invalicabile dei 7 milioni di copie vendute.
Con una sola, grande eccezione: l'universo Pokémon. Pokémon a conti fatti è l'unico brand videoludico che è possibile accostare alla saga di Final Fantasy: entrambe hanno attraversato le ultime tre decadi, entrambe hanno un portfolio ricco di opere capaci di toccare i 20 milioni di copie vendute, entrambe devono dividersi costantemente tra le aspettative dei fan della prima ora e le esigenze del pubblico moderno, entrambe vivono costantemente sotto la lente d'ingrandimento puntata da dozzine di milioni di fan.
Se i videogiochi Pokémon di Game Freak non hanno mai (fino a Leggende: Arceus) abbandonato la struttura tradizionale e il combattimento a turni – e per questo sono stati fortemente criticati – i Final Fantasy di Square-Enix hanno imboccato una netta deviazione in termini di gameplay – e per questo sono stati fortemente criticati. Tralasciando la triste constatazione del fatto che nel tessuto creativo contemporaneo non importa come ti muovi perché tanto sarai criticato a prescindere, quella dell'adozione o meno del combattimento a turni, al netto della frangia più vocale del pubblico, continua a dimostrarsi una scelta capace di dividere.
Certo, ci sono generi videoludici ormai cementificati nei quali è praticamente impensabile arrivare a una scissione – su tutti brillano la maggior parte degli strategici – ma è ugualmente un fatto che se sul finire degli anni '90 le opere destinate a fare scuola potevano tranquillamente sfoggiare il combattimento a turni, oggi è diventato quasi impossibile immaginare di vederne una con simili connotati in grado di competere per l'assegnazione dei premi più ambiti.
Perché si è delineata una situazione simile? Cosa manca ai sistemi di combattimento a turni per trovare uno spazio al centro del palcoscenico nel moderno mercato del gaming? La risposta più ovvia risiede nell'evoluzione del pubblico, ormai enormemente più vasto rispetto al passato e sempre più vicino a esigenze di realismo, a un'interpretazione del videogioco contemporaneo che insegua a tutto tondo la mimesi della realtà; se un tempo i sistemi a turni consentivano agli artisti di “esagerare” sul fronte del world building attraverso saggi di pixel art, oggi il kolossal videoludico dev'essere vasto, caratterizzato da formule di gameplay proattive e sempre graficamente appagante.
Ciò è comprovato dalla recente messa in scena dei Remake dedicati a Final Fantasy VII: per arrivare a una resa contemporanea soddisfacente di un titolo da 50 ore risalente alla seconda metà dei '90, oggi si è costretti a sezionarlo in tre segmenti per tentare di inseguire il medesimo risultato, previa una mole incalcolabile di lavoro in grado di far lievitare oltremisura i tempi di sviluppo.
Ciò detto, è ugualmente errato pensare che il potere sia ancorato unicamente alle tendenze inseguite dal grande pubblico: se Hidetaka Miyazaki, con i soulsborne, ha dimostrato che è stata sufficiente una semplice rilettura di meccaniche e filosofie di game design considerate “morte” per costruire una scala dorata verso il successo commerciale, potrebbe essere sufficiente un singolo RPG dotato di un classico combattimento a turni e del medesimo piglio creativo che ha permesso alla compilation di Final Fantasy VII di piazzare oltre 24 milioni di copie per raggiungere lo stesso risultato.
Insomma, non saremmo stupiti di scoprire che se un giorno Square-Enix dovesse annunciare e sviluppare un eventuale Final Fantasy XVII (il sedicesimo episodio non avrà il combattimento a turni) sorretto dalla classica formula che ha portato la saga al successo, questo sarebbe in grado di oltrepassare senza sforzo i risultati raggiunti dal tanto discusso quindicesimo capitolo. A patto, ovviamente, di modernizzare la formula e pescare le giuste ispirazioni, un'operazione che è sì difficile, ma che è stata possibile per i succitati Persona 5, Divinity: Original Sin II, Yakuza: Like a Dragon, e per le tantissime gemme emerse dal sottobosco indipendente.
Il combattimento a turni è veramente morto? Ovviamente la risposta è un secco, secchissimo no: ha continuato a caratterizzare l'universo dei videogiochi, vivendo un'evoluzione propria e aiutando l'emersione di diverse produzioni eccelse, che sono scaturite tanto dalla fantasia orientale quanto da quella occidentale. D'altra parte, all'orizzonte non esiste un singolo progetto che sembri capace di riportare questa filosofia di design sul trono che ha occupato per anni, ovvero sullo sfondo di quelli che, nella sua età dell'oro, erano considerati i migliori videogiochi in circolazione.