Cosa serve per vincere un Game of the Year?
Alla ricerca della ricetta del GOTY.
Domanda da un milione di dollari: cosa serve per portare a casa una statuetta per il Game of the Year? Esiste una formula vincente e universalmente valida che spinge un titolo ad imporsi nelle classifiche delle esperienze più apprezzate dell'anno secondo gli esperti?
All'inizio del 2020, Nathan Lee del Business Insider ha pubblicato un interessante articolo che poneva la medesima domanda nei confini del mercato di Hollywood. Cosa serve per vincere un premio Oscar? Analizzando le statistiche della kermesse messa in piedi dall'Academy è emersa un'architettura piuttosto precisa, quasi matematica, una struttura comune a tutti i grandi vincitori della manifestazione.
Negli ultimi 90 anni di storia cinematografica, ad esempio, non è mai capitato che un film sci-fi o horror arrivasse a vincere la statuetta più ambita, mentre pellicole del calibro di Psycho di Hitchcock e 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick non hanno meritato neppure la nomination. Ecco l'identikit dei vincitori: il 93% dei film premiati è figlio del macro-genere "drama", ha ottenuto una valutazione della critica e del pubblico che supera l'80% di gradimento complessivo, e nella maggior parte dei casi annovera nei crediti personalità che hanno già preso parte ad un'opera premiata con il "best picture".
Secondo Lee questa tendenza ha portato a una cristallizzazione della "formula vincente", delineando una situazione capace di influenzare negativamente l'intera industria cinematografica, portandola a riservare uno spazio preponderante ai soliti noti della categoria. In sostanza, la cultura del premio Oscar spingerebbe i produttori a fossilizzarsi su una singola dimensione, sugli stessi nomi e su esperienze perlopiù simili tra loro, ostacolando di fatto il progresso creativo.
E nel mondo dei videogiochi invece? Possibile che stia accadendo qualcosa di simile? Prima di proseguire, vale la pena dare un'occhiata agli ultimi undici vincitori del premio per il Game of the Year ai The Game Awards, il celebre evento dicembrino di Geoff Keighley che tenta di mediare fra le preferenze dei numerosi attori critici presenti in giuria.
A partire dal 2010, quando ancora si trattava degli Spike VIdeo Game Awards, a portare a casa il massimo riconoscimento sono stati, in ordine, Red Dead Redemption, The Elder Scrolls V: Skyrim, The Walking Dead, Grand Thetf Auto V, Dragon Age Inquisition, The Witcher 3: Wild Hunt, Overwatch, The Legend of Zelda: Breath of the Wild, God of War, Sekiro: Shadows Die Twice e The Last of Us Parte 2.
Da questa carrellata di titoli si può immediatamente trarre una serie di conclusioni piuttosto evidenti; la prima che salta all'occhio è la dominanza dei videogiochi action-adventure che offrono la visuale in terza persona, una struttura che si ripete in almeno sette casi su dieci. Allo stesso modo, sono nove i titoli prevalentemente story driven ad aver incassato una statuetta e, cosa ben più importante, la totalità dei vincitori adotta un'architettura ludica e creativa che ruota interamente attorno a meccaniche "violente".
Quest'ultimo punto fa riflettere: nonostante le esperienze videoludiche siano maturate enormemente nel corso degli ultimi anni, è ancora molto difficile, se non addirittura impossibile, trovarsi al cospetto di un kolossal che sia in grado di esulare da una formula di gameplay legata a doppio filo con la violenza, ovviamente intesa in senso ampio. Attenzione, il nostro scopo non è assolutamente quello di fare facili moralismi, ma è inevitabile constatare quella che è una vera e propria mancanza dell'industria del videogioco. Se per un film come Titanic è stato molto semplice sbancare al botteghino e ottenere il massimo riconoscimento dalla critica, nel 2020 è ancora impensabile che qualcosa di simile accada nel mondo dei videogiochi.
Tralasciando questa riflessione, che in ogni caso meriterebbe un'analisi a sé stante, la critica più azzeccata che è stata rivolta all'incredibile lavoro degli studi di Sony Interactive Entertainment è senza dubbio quella di mettere in scena titoli troppo simili fra loro. Lo strumento del gioco d'azione e avventura in terza persona che punta sulla componente narrativa si è dimostrato un alleato insostituibile durante la scalata vincente di PlayStation, facendo conquistare ai creativi decine di nomination ai GOTY; d'altra parte, l'eccezionale messa in scena delle suddette esperienze ha inevitabilmente penalizzato qualsiasi genere di approccio trasversale.
Un dato interessante che emerge dalla lista dei vincitori, in effetti, è che nelle ultime dieci edizioni dei The Game Awards non sia stata presente neppure una fatica degli Xbox Game Studios. Gli studi di Microsoft sembrano determinati a mantenere le distanze dalla struttura preferita dalla concorrenza, anzi, si potrebbe dire che nel corso degli anni hanno tentato di percorrere alcune fra le strade più innovative del settore, senza purtroppo riuscire a raccoglierne i frutti. Possibile che a mantenerli indietro sia solo la scelta di evitare accuratamente la formula dell'action in terza persona?
Forse quello che manca sono i grandi nomi. Neil Druckmann, Cory Barlog, Hideo Kojima, Fumito Ueda, Hidetaka Miyazaki. Se dalle parti di Sony anche un videogiocatore disinformato conosce l'identità di buona parte delle personalità al vertice delle grandi produzioni, sulle sponde di Microsoft ciò non accade neppure fra i titoli di bandiera, come ad esempio Halo, Forza o Gears of War. Se dobbiamo prendere per buono quanto affermato da Lee riguardo gli Oscar, questa caratteristica potrebbe rivelarsi determinante anche nel caso di un premio 'giovane' come il GOTY.
Accanto al peso dei grandi nomi spicca ed è ancor più impattante quello della dimensione finanziaria di riferimento. Nel dominio assoluto del modello AAA, The Walking Dead di Telltale è stata l'unica opera capace di conquistare il GOTY adottando una formula differente. Certo, in epoca recente è capitato che cerimonie ugualmente blasonate, su tutte quella di GameSpot, arrivassero a premiare titoli provenienti dal sottobosco indipendente, ma nonostante la mole di capolavori costantemente sfornati dai piccoli studi, quello di posizionare un indie sul tetto del mondo resta ancora un tabù da infrangere.
È come se ci volessimo accontentare di trovare un Hades, un Disco Elysium o un Celeste accanto ai titani durante la lettura delle nomination, senza riuscire ad abbracciare fino in fondo l'idea di una vittoria concreta. La kermesse del 2019 è stata emblematica in questo senso: Sekiro ha vinto il premio per il Game of the Year, raggiungendo un traguardo che era sfuggito persino a Bloodborne e Dark Souls, superando titoli decisamente più ambiziosi come Outer Wilds di Mobius Design e il sopracitato Disco Elysium di ZA/UM. Gli astri si erano allineati, ma non è stata sufficiente neppure la mancanza di concorrenti inavvicinabili.
Il che è un vero peccato, perché la spinta a livello di vendite sarebbe enormemente più impattante per i piccoli capolavori inizialmente destinati a una nicchia, e spesso passati sottotraccia, rispetto al caso del solito blockbuster. Per quanto riguarda gli Academy Awards, Lee ha verificato che è praticamente impossibile che produzioni molto apprezzate da ristrette frazioni di pubblico riescano a conquistare la vetta del Dolby Theatre, e sfortunatamente lo stesso accade con il Game of the Year.
Emblematico, poi, è il caso di Overwatch di Blizzard Entertainment, che nel corso dell'ultima decade rappresenta l'unico titolo capace di imporsi sulla concorrenza pur deviando dal binario dell'esperienza story driven. Anni di evoluzione nella lettura del medium hanno portato alla costante ricerca degli elementi necessari per portare a una sorta di "elevazione" del settore, elementi che hanno finito per coincidere spesso e volentieri con il comparto della scrittura.
Se è senza ombra di dubbio corretto premiare sempre e comunque l'emozione, i grandi videogiochi non sono solamente quelli che raccontano grandi storie. La creatività, l'intrattenimento, la sfida, la competizione: l'industry dei videogame è un vero e proprio caleidoscopio creativo, ed è forse la dicitura stessa del "GOTY" ad essere inadatta per garantire a ciascuna sfaccettatura la giusta dignità artistica.
È vero, il Game of the Year non ha mai avuto la pretesa di imporsi come uno strumento di valutazione oggettivo e insindacabile nella definizione del più grande capolavoro dell'anno, ma l'omogenizzazione che sta caratterizzando le moderne produzioni AAA potrebbe trovare una sorta di giustificazione nell'assegnazione dei premi. Se ciò fosse vero, si correrebbe il rischio concreto di identificare nel "modello GOTY" lo standard cui qualsiasi studio dovrebbe ambire, spegnendo le produzioni più innovative fin dal momento del concept.
Sia chiaro, gli ultimi anni hanno alzato il sipario su esperienze incredibili che non baratteremmo per niente al mondo, ma sono ugualmente straripanti di grandissime opere, spesso uniche e ambiziose, che non sono riuscite ad ottenere il riconoscimento che avrebbero meritato. Possibile che l'assegnazione dei GOTY abbia un qualche tipo di influenza sulla standardizzazione del processo creativo e del pensiero critico? Probabilmente non lo sapremo mai con certezza, ma vale la pena di prestare attenzione al fenomeno.