Creed II - recensione
Creed vs Drago. Di nuovo.
Nel 2016 abbiamo lasciato Adonis Creed vittorioso dopo l'epocale match cui era stato preparato da un dimenticato Rocky Balboa, ormai vecchio e malato.
Uscito vincitore da una nuova importante sfida (ma a quel livello tutti sono match della vita), il ragazzo ancora non ha fatto i conti con la sua ingombrante figura paterna e non sa perché combatte. Nulla di più nefasto per un pugile.
Anche il suo grande amore, anche la nuova paternità poco potranno nel momento più buio. Che arriva, lontano dalla guida del suo mentore, quando Adonis accetta la sfida del figlio di Ivan Drago, tornato per rifarsi dell'umiliazione subita nel lontano 1985 per mano di Rocky, dopo aver ammazzato sul ring Apollo Creed.
Dopo quella sconfitta Ivan era caduto in disgrazia. Messo da parte e finito in miseria (e si sa quanto miserabile possa essere la vita quando si perde la gloria), ha dedicato tutto il resto della sua esistenza alla vendetta, caricando il figlio Victor, un'infelice montagna umana di muscoli, come un'arma da puntare contro quello che è quasi come un figlio per Rocky, Adonis.
La sfida è un affare ghiottissimo per i media, sottrarsi è impossibile, come lo è anche vincere senza la giusta motivazione. Che arriverà dopo dolori e sofferenze, grazie al grande allenatore/guru Rocky, il vecchio che ha saputo ascoltare quando la vita gli ha parlato. Pare che si apprezzi il valore delle cose solo quando le si perde. Ma Drago Jr. non ha nulla da perdere, nel vuoto della sua devastata esistenza. Jordan invece ha tanto: avrà la forza di rischiare tutto?
La struttura narrativa è quella tradizionale: vittorie si alternano a sconfitte, dagli altari si precipita nella polvere. Ma solo chi cade si può rialzare, a prezzo però di grandi sofferenze e durissime prove. Questa volta, nella riproposizione del mitico binomio Creed/Drago, Stallone sceneggiatore trova la chiave per aumentare il pathos e approfondire i personaggi, per un secondo episodio più coinvolgente ed emozionante del primo.
Prende infatti spessore il personaggio di Adonis, che dovrà scavare nel suo cuore oltre che pompare i propri muscoli. Michael B. Jordan, giovane attore ormai lanciatissimo, riesce con l'impegno a compensare una sua mancanza di empatia, come attore, che alla lunga potrebbe nuocergli. Si cesella affettuosamente il solitario Rocky, l'uomo che sussurra alla tomba della moglie, mite e civile, stanco ma mai arreso, con la sua irreale bontà e gentilezza d'animo nascoste sotto una faccia che ha preso troppi pugni, e un corpo pompato da troppi allenamenti.
Ma non sono piatte figurine nemmeno i due "cattivi", i Drago padre e figlio, uomini altrettanto soli e devastati da una vita di sofferenze, reietti perché sconfitti, mai perdonati per il disonore inflitto alla patria, abbandonati perfino da moglie e madre. Ritorna infatti l'ormai (pure lui mitico) Dolph Lundgren, non più il caricaturale cattivo dell'Est, la macchina per uccidere e nulla più, ma un uomo devastato dalla delusione che vede nel figlio solo il mezzo per rifarsi dall'antica sconfitta.
E oltre a lui ricompare in un paio di scene Brigitte Nielsen, perfida ex moglie, madre degenere. Nel ruolo di Victor, esordisce sullo schermo il monumentale Florian "Big Nasty" Munteanu, di origine rumena, scelto perché pugile professionista e per la stazza, una testa più alto di Jordan, che per entrare nel ruolo ha dovuto ingrassare 10 chili. Stesso peso che ha dovuto perdere Florian per rendere plausibile l'appartenenza di entrambi alla categoria dei massimi.
Sono tutti personaggi che non hanno altro modo per riscattarsi, un riscatto per ciascuno diverso perché diverse sono le origini, le mancanze affettive, diverse le necessità che li spingono ad affollarsi sopra e intorno a quel ring che è definito "il posto più solitario del mondo". Per cosa si soffre di più: per i pugni che spaccano la faccia, spezzano le costole e fanno pisciare sangue, o per la rabbia, le incomprensioni, la solitudine, l'amarezza di una vita sprecata?
La sceneggiatura di Stallone è stata scritta insieme all'esordiente Juel Taylor, su soggetto di Sascha Penn e Cheo Hodari Coker (Southland, Luke Cage) e a questo giro ai suoi ordini si trova Steven Cople Jr. (regista dai non molti crediti), che mette in scena dei match girati con coinvolgente realismo (sono 16 i round effettuati da cui pescare nel montaggio e sul ring compare immancabilmente Michael Buffer con il suo "Let's Gey Ready to Rumble!").
Assai scenografici i due ingressi in campo di Adonis, che completerà la sua preparazione in un pittoresco campo di allenamento nella Death Valley. Notevole la selezione di canzoni, tutte hip-hop con il meglio degli autori sulla piazza, un paio cantate anche da Tessa Thompson, nel film compagna del pugile, mentre nella colonna sonora originale, nuovamente scritta da Ludwig Göransson ci si emoziona tanto quando vengono citate le note della celeberrima "fanfara" di Bill Conti, Gonna Fly Now.
Resta, come difetto principale, il fatto che ci si appassioni di più per il personaggio di Rocky, qui alla conclusione della sua parabola, che al giovane Creed, che nelle intenzioni dovrebbe dare il via a una nuova serie. Creed 2 infatti chiude il cerchio di un personaggio amatissimo, che sembra modellato sugli esordi della carriera dell'autore che lo impersona, quel Sylvester Stallone che nel 1976 ha penato a imporsi come protagonista della storia da lui scritta, in seguito mai molto stimato dalla critica, assai invece dal pubblico. Storia scritta, si dice, prendendo ispirazione dal match tra Muhammad Alì e Chuck Wepner, mentre per i metodi di allenamento di Rocky, assai poco ortodossi, Sly si era rifatto allo stile di Joe Frazier.
Rocky Balboa è un personaggio eterno, basato su un archetipo sempre valido, quello del perdente, dell'umiliato dalla vita che trova il suo riscatto contando solo su se stesso e sulle proprie forze, sostenuto dall'affetto di chi gli vuole bene. Una favola sempre confortante, che mai perde d'attualità. Stallone, di umili origini, afflitto pure da una leggera semi-paresi facciale dovuta al parto, dopo anni di faticosa e ostinata gavetta aveva dato l'avvio a una carriera dallo strepitoso successo commerciale con il più "artistico" dei suoi film.
Dopo più di 40 anni di lavoro e di una vita ricca di alti e bassi (candidato ma mai premiato con l'Oscar) è arrivato per un caso del destino a riprendere la sua creatura artistica alla fine della propria parabola. E forse alcune delle massime di vita di Rocky un po' appartengono anche a Sly.
Creed 2 non finisce nella gloria di una vittoria, nel frastuono di un ring circondato da gente urlante e osannante, ma sottovoce, nel ritorno agli affetti, alla famiglia, perché, ci dice Rocky/Sly in tutti i suoi film, quello è l'unico valore che conta. Poi tutta la vita combattiamo, per qualcosa, contro qualcuno. Spesso però gli avversari più duri da battere sono i nostri fantasmi.