Da 5 Bloods: come fratelli - recensione
“Il verde dei soldi vale più del nero della pelle”.
I Da 5 Bloods del titolo dell'ultimo film di Spike Lee, distribuito dal 12 giugno su Netflix, sono cinque Brothers in Arms, cinque ex veterani del Vietnam, tutti afroamericani, che si ritrovano dopo più di 40 anni per una missione da compiere insieme.
Ormai anziani e alle prese con problemi economici, famigliari e fisici, decidono di tornare in Vietnam per recuperare i resti di un loro grande amico, morto nella giungla e lì rimasto sepolto. Ma anche per riprendersi un carico governativo di lingotti d'oro, per il cui recupero erano finiti nell'imboscata fatale.
L'amico era Norman (Chadwick Boseman, che compare solo nei flashback in 4/3), mitizzato eroico leader, primo caposquadra nero, che aveva saputo politicizzare il suo piccolo plotone mentre lo aiutava a restare in vita. Era stato mentre si trovavano nella giungla con lui, che la voce melliflua della Lady di Radio Hanoi aveva diffuso la notizia dell'assassinio di Martin Luther King; da lui avevano saputo che era il 32% di neri a essere stato reclutato per la sporca guerra, mentre rappresentavano solo l'11% dell'intera popolazione americana.
E che a fronte dell'impegno, dei sacrifici e delle morti dei soldati di colore nella Seconda Guerra, in Corea e nel Vietnam, nessuna delle promesse di maggiori diritti era stata rispettata. Lui aveva spiegato che quei lingotti appartenevano a loro e che loro avrebbero dovuto impiegarli per la causa, una volta tornati in patria.
I quattro amici, cui si unirà l'indesiderato figlio di uno di loro, atterrano in una ex Saigon (ora Ho Chi Minh City) non solo americanizzata, ma proprio asfaltata dal turismo internazionale e faticano a ritrovare la loro memory lane. Quando partono per il sito che ben conoscono, le intenzioni sono le migliori, lo spirito della rinnovata truppa è alto e tutto è stato ben organizzato.
Il gruppetto di amici trionfalmente si inoltra fra canali e villaggi su una chiatta, mentre echeggiano sarcasticamente le note della Cavalcata delle Valchirie, di coppoliana memoria. Peccato che lungo il percorso che li porterà alla loro meta e soprattutto nel ritorno, le cose degenereranno in modo drammatico. Per colpa di chi, di cosa?
Il cast è misto, con facce note di validi attori come Delroy Lindo, Clarke Peters, Isaiah Whitlock (e sono migliori dei loro personaggi), con l'aggiunta di un infido Jean Reno, della bella Mélanie Thierry e anche di Paul Walter Hauser (il protagonista di Richard Jewell). Di maniera la colonna sonora del fidato Terence Blanchard, più apprezzabili le molte citazioni di Marvin Gay.
Parte benissimo Spike Lee, sulle note di Inner City Blues, con la dichiarazione di Muhammad Ali con cui motivava il suo rifiuto ad andare a combattere in Vietnam, e poi Malcolm X, Angela Davis e Bobby Seale, proseguendo con filmati e immagini di repertorio, alcune notissime, mettendo in parallelo gli scontri e le uccisioni durante le manifestazioni di quegli anni nei campus e nelle strade degli USA e le stragi sul terreno di guerra, fino alla tragica ritirata nel 1975.
Il film dura due ore e mazza, troppe, perdendo tempo specie nella seconda parte con dettagli irrilevanti, incappando in qualche illogicità, in diverse forzature, con frequenti digressioni storiche, di cronaca. Del resto perché stupirsi? Spike Lee vuole raccontare una storia ibrida, di azione e amicizia ma da militante, a tesi.
La sceneggiatura è scritta a otto mani: troviamo Danny Bilson, Paul De Meo, Kevin Willmott, e due sono quelle di Lee, cui pensiamo si possano far risalire tutti questi inserimenti socio-politici che risultano forzati. Perché Da 5 Bloods, e spiace dirlo, si rivela come una torta che all'aspetto si presenta in un modo, per poi lasciar affiorare un altro sapore mentre viene masticata e un fondo fastidioso, come di una medicina infilata dentro a forza, nel suo complesso di non facile digeribilità.
Spike Lee dovrebbe abbandonare l'idea di realizzare prodotti commerciabili come film di guerra e d'azione, da riempire poi della sua (peraltro sacrosanta) militanza. Perché in alcune delle ultime opere questa commistione non è venuta bene (pensiamo a Miracolo a Sant'Anna), mentre aveva funzionato alla grande il sarcasmo di BlacKkKlansman. Qui lo humor si ferma alla presa in giro di Rambo e Chuck Norris.
Appare del tutto inutile e pretestuoso, da destra o da sinistra, mettersi a discutere su come Spike Lee nel film raffiguri i suoi personaggi, buoni o cattivi, bianchi, neri o gialli. Perché tutti i personaggi sono stereotipi di cui il regista si serve meccanicamente per portare avanti la tesi che più gli sta a cuore in maniera ossessiva (e non che abbia torto, naturalmente, e mai come oggi).
Che è quella della discriminazione razziale e dello sfruttamento della popolazione di colore da parte dei detestati bianchi, tema sul quale nel corso della narrazione torna ritmicamente, anche in momenti drammaturgicamente impropri. E sembra tragico che ancora sul Vietnam si possa dire qualcosa di nuovo, almeno per gli europei (c'è anche una denuncia contro il famoso Agente Orange infilata proprio a forza in un momento secondo noi improprio).
Queste riflessioni valgono almeno per quanto riguarda un mercato "bianco", che se informato e attento s'infastidirà, e che se ignaro non sarà certo invogliato a capirne di più. Del resto se alcuni dei suoi ultimi film non hanno avuto una grande distribuzione, un motivo potrebbe essere questo. Restiamo con la curiosità di sapere cose ne penserebbe di un film così un rappresentante della popolazione di colore americana.
Una nota a margine: nel film visto in originale con i sottotitoli, il termine "nigger", quando usato come epiteto in contrasto con "muso giallo", nei sub viene tradotto come "pellenera", forse nell'orrore politicamente corretto di scrivere l'aborrita parola.
Ma riflettiamo sulla sublime ipocrisia della Grande Nazione perché proprio mentre guardavamo il film ieri, si è diffusa la notizia che HBO aveva rimosso (temporaneamente) Via col vento dal suo catalogo in streaming, tacciandolo di essere un film "razzista".
Quindi di fronte a tanto esasperante fumo e a così poco arrosto, un poco ci sentiamo più comprensivi nei confronti di Spike Lee, anche in presenza di un film non riuscito, che si chiude inneggiando profeticamente " Black Lives Matter".