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Death to 2020 - recensione

Occhio alle personalità multiple da lockdown!

Si usa spesso ridere delle sciagure, meglio se altrui. Si può riuscire a ridere del 2020, anno di sciagura collettiva che ha toccato chiunque sul pianeta, come nemmeno una guerra mondiale era arrivata a fare?

Charlie Brooker, dalla lunga carriera sfociata in Black Mirror, ha pensato di sì, con l'intenzione di non far sghignazzare il suo pubblico ma di farlo sorridere spesso amaramente, qualche volta al massimo esplodere in qualche risatina nervosa. Quindi nessuno aspetti di ribaltarsi dal ridere con questo Death to 2020, documentario di un'ora e dieci.

Per raccontare le cose incredibili successe in un anno che con la sua doppia cifra faceva quasi simpatia, Brooker sceglie la chiave narrativa a lui congeniale, la satira. Ma è possibile aspettarsi di ridere quando nessuna satira riesce più a superare la realtà e quindi in fondo da ridere non c'è proprio più niente?

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Il documentario parte sulle già poco promettenti immagini degli inizi dell'anno, con la devastazione dell'Australia provocata dai catastrofici incendi, cui segue il summit di Davos (definito "la Coachella dei miliardari"), e l'assassinio del generale iraniano Soleimani, per distrarre il paese dal tentativo di impeachment nei confronti del Presidente.

Intanto l'Inghilterra è alle prese ancora e ancora con la Brexit (e lo scandalo Harry/Megan) e ha luogo la cerimonia degli Oscar, quando già si annuncia il peggio. E infatti il Covid irrompe sulla scena, pur già annunciato dagli ultimi mesi del 2019, e via al contagio, all'epidemia. Problema al quale come sempre l'umanità ha risposto in due modi; razionalmente e irrazionalmente.

Per corredare le immagini, tutti filmati autentici di varia origine, Brooker mette in scena una serie di personaggi fittizi, affidati a diversi attori: abbiamo l'arguto Professore di Oxford Hugh Grant (in realtà un imbecille totale ma dal raffinato accento britannico); la mammina americana ideale (Cristin Milioti), tutta social, sorrisi e moine (ma razzista e trumpiana fino al midollo); la studiosa di comportamento Leslie Jones, alla quale l'intera umanità fa schifo; Joe Keery, il millennial vacuo ma furbetto.

Samuel Jackson fa il disincantato giornalista.

Kumail Nanjiani fa il magnate della Silicon, che con la crisi ha fatto ancora più grana; lo scienziato dalle poche virtù, che tanto nessuna ascolta, è Samson Kayo. Esilarante Lisa Kudrow, la portavoce negazionista di tutto ciò che va contro il suo candidato; Samuel L. Jackson, cool come sempre, è un disincantato giornalista del New Yorker, mentre Tracey Ullman fa una Regina Elisabetta quasi casalinga ma dal regale distacco. La "donna qualunque", di patetica e bovina idiozia, è Diane Morgan. Il suo personaggio, Philomena Cunk, divenuto di culto, ha avuto uno spin-off tutto suo. La voce narrante è quella di Laurence Fishburne.

A interrompere la sequela di notizie sull'epidemia, troviamo due fatti: l'assassinio di George Floyd con la conseguente rivolta del Black Lives Matter, che si è diffusa in tutto il paese; e le elezioni presidenziali, alle quali Brooker si dedica nella seconda parte del documentario e dove, nella sua scarsa simpatica anche nei confronti del vecchio Biden, si ride parecchio.

Cosa abbiamo imparato in questo 2020, quindi, oltre a quanti passi ci sono fra il nostro divano e il frigo? Che la democrazia non è eterna e immutabile, va accudita e allevata come "una donna o un pregiudizio".

Hugh Grant è il borioso professore inglese.

In ogni modo, Death to 2020 provoca un salutare effetto catartico, perché se è vero che una risata non ha mai seppellito il Potere, come recitava uno slogan del '68, ridere del mondo e di noi stessi resta la medicina migliore per sopravvivere. Visto anche com'è cominciato il 2021...