Destiny è il Darth Vader dei videogiochi - editoriale
“Dovevi portare equilibrio nella forza, non lasciarla nelle tenebre!”
Destiny. Un nome ambizioso, monolitico e altisonante. Uno fra i primi titoli ad alzare il sipario sull'ottava generazione di console, un progetto che ha serpeggiato per anni negli studi di Bungie, uno scrigno che custodiva al suo interno una mitologia degna dell'epica classica. Una creatura nata dalla penna di Joe Staten, forgiata da una squadra di sognatori finalmente liberi dalle catene dello sviluppo first party e infine colorata da un cenacolo di artisti fra i migliori del medium.
Dopo un'antologia del calibro di Halo, la software house decise di intraprendere un cammino coraggioso, a tratti anche pericoloso, nel tentativo di soggiogare l'anima degli MMORPG per imbrigliarla nei confini dello sparatutto in prima persona. Destiny fu capace di risonare immediatamente con l'anima del suo pubblico: fin dal primo trailer, qualcosa di magico passò attraverso allo schermo, una sorta di lettera d'invito alla scuola di stregoneria di Hogwarts, un richiamo capace di sottrarre milioni di persone alla propria routine di videogiocatori.
Studenti, lavoratori, ragazzini, donne, uomini adulti, ragazze, giocatori di FIFA, "coddari" della prima ora; tutti si trovarono improvvisamente assorbiti da un incantesimo che svolazzava a mezz'aria sopra l'Ultima Città, a pochi chilometri di distanza da un'affascinante Torre stretta nell'abbraccio dei monti del Nepal. Il Viaggiatore era un centro di gravità permanente, un sole radioso in grado d'illuminare centinaia di giornate, assistendo alla nascita e alla fine di migliaia di amicizie, ai trionfi e ai fallimenti di milioni eroi.
Quegli eroi eravamo noi, Guardiani maturati in simbiosi con un universo straordinario, potente proprio perché imperfetto, traboccante di segreti e di storie sepolte, costellato di sogni da inseguire e di piccole increspature nella matrice da piegare per spianarsi la via. Destiny è stato come Friends, come il Mondiale del 2006, come le canzoni degli 883; è stato come World of Warcraft, come Non è la Rai, come Dragonball. Insomma, che piaccia o meno, Destiny ha segnato un'intera generazione.
E pensare che tutto ha avuto inizio dall'incontro fra un robottino metallico infuso di Luce e un semplice umano, un costrutto exo o un misterioso insonne. Una fuga rocambolesca fra lamiere arrugginite, una frenetica battaglia per la sopravvivenza, un salto al buio nella tana del Bianconiglio. Oltre quel limite si nascondeva l'incontenibile potere della comunità: commilitoni, compagni di gioco, reggenti dei clan, membri del fireteam, insomma, una schiera di amici con cui battere ogni millimetro del sistema solare.
In quell'istante, a seguito di una semplice conversazione via etere, si scatenava una reazione chimica senza precedenti. Le lunghissime nottate fra i pinnacoli fluttuanti della Volta di Vetro, la costante ricerca della storia oltre la storia, le imprese e le cadute destinate a riecheggiare per l'eternità. Giornata difficile? Non fa niente: l'appuntamento più atteso era quello di fronte ai cancelli del raid, perché forse, ma forse, quella settimana stressante si sarebbe chiusa in bellezza con un Gjallarhorn o un Mitoclasta Vex. In fin dei conti non era poi così importante:il viaggio era ciò che contava veramente.
Un viaggio che si svelava timidamente, con ritrosia, lasciando l'universo diviso fra luce e oscurità avvolto da una fitta nube di mistero; qualche volta si riusciva a scorgere un pizzico di cosmogonia, come quella incisa sulle pagine dei Libri del Dolore, le scritture che raccontavano della caduta di Aurash, Xi Ro e Sathona, creature innocenti poi tramutatesi nelle divinità dell'alveare. Il segreto dell'incantesimo risedeva proprio nella potenza intrinseca di tutto ciò che non si poteva vedere né toccare, nella rilevanza di una "lore" aperta alle speculazioni, nel fascino delle gesta compiute da eroi ormai scomparsi.
Destiny ha forgiato le comunità di videogiocatori, specialmente quelle italiane, come solo World of Warcraft di Blizzard Entertainment era riuscito a fare prima di lui. Avrebbe potuto unire sotto la stessa bandiera tutti i fedelissimi del pianeta console. È stato l'inconsapevole custode del cancello che impediva ai Battle Royale di esplodere con prepotenza nel medium, una guardia instancabile in difesa dai nuovi modelli di business, l'ultimo baluardo di una filosofia di gaming che forse non esiste più.
In poche parole, Destiny era il prescelto, colui che avrebbe dovuto portare equilibrio nella forza, scacciando il male in favore di un mondo utopico fatto di collaborazione, amicizia e aiuto reciproco. Ma alla fine, Destiny è diventato una creatura talmente potente da spingere gli sviluppatori a cercare con determinazione un nemico invisibile da affrontare, nel costante timore di perdere una posizione di dominanza faticosamente acquisita.
Per circa quattro anni l'intero sottobosco degli sviluppatori di videogiochi si è messo sulle tracce del "Destiny killer", di quella lancia di Longino che sarebbe finalmente riuscita ad infliggere un colpo fatale all'invincibile progetto di Bungie. Ironicamente, l'unico titolo in grado di compiere quell'impresa apparentemente impossibile era nientemeno che lo stesso Destiny.
Se c'è qualcosa che l'esperienza di Cataclysm in World of Warcraft ha insegnato al mondo dei videogiochi, è che il metodo più facile per annientare il successo di un universo persistente è quello di mandare in frantumi migliaia di ricordi e memorabilia. L'esordio di Destiny 2 ha spazzato via il sistema solare come un colpo di cancellino sulla lavagna, scatenando una reazione a catena dalla quale è tutt'ora impossibile tornare indietro.
Nel corso della lotta contro i mulini a vento intrapresa dal team di Luke Smith, persino il velo di immacolata fantasia che circondava l'universo di Destiny ha finito per esser strappato, lasciando l'imperatore completamente nudo. Dissolta la nebbia, quella storia non era poi così affascinante; una volta toccati con mano, quei personaggi non erano poi così leggendari; una volta vissuto senza i compagni di una vita, quel mondo non era poi così fantastico.
Oggi, il fuoco che divampava ai piedi del Viaggiatore è ridotto a una timida brace, ed è ormai evidente che il mimetismo non sia sufficiente per ravvivare le fiamme. Il Crogiolo bilanciato e attento ai dettami dell'esport, l'onnipresente Battle Pass, l'omogenizzazione tecnica tanto cara al mondo MMO, l'apologetica riproposizione delle armi più amate. La verità è che il sole non si è spento al tramonto del primo episodio, bensì all'alba del secondo.
Eppure, c'è stato un momento in cui quella piccola fiammella si è improvvisamente trasformata in un incendio divampante nei sotterranei della Città Sognante, fra i confini del raid Ultimo Desiderio, ma purtroppo si è trattato di una semplice scossa di assestamento. Una scossa che, d'altro canto, ha dimostrato che sotto la disperata ricerca di un sistema di monetizzazione, oltre gli scivoloni narrativi e dietro il processo di omologazione si nasconde ancora quell'antica anima incandescente.
Destiny ci ha fatto muovere qualche passo nel suo Eden imperfetto, segnando irrimediabilmente il nostro percorso da videogiocatori, trasformandosi nel metro di paragone cui accostiamo qualunque esperienza cooperativa. Anche se non lo riconosciamo più, siamo certi che ci sia ancora del buono in lui.
I ricordi non mentono, e se non ci credete provate a tornare con la mente a un tramonto qualunque all'ombra del Viaggiatore, quando un Guardiano sconosciuto vi ha contattato per la prima volta, magari dicendo qualcosa di semplice e sciocco per poi trasformarsi nel compagno di mille battaglie ai confini del sistema solare e anche oltre. "Vi va di fare un raid?" A noi oggi non va più di tanto, ma domani chissà.