Diabolik Recensione: Torna su grande schermo l'eroe dei fumetti
Ci sarà spazio oggi per un Cattivo senza scrupoli?
Dopo il lontano film di Mario Bava (1968), torna su grande schermo Diabolik, personaggio amatissimo, creato nel 1962 dalle Sorelle Giussani, Angela e Luciana, per la casa editrice Astorina, disegnato sulle fattezze di Robert Taylor.
In questa nuova trasposizione, dove ci ritroviamo, se non nell'immaginaria Clerville (un mix fra Bologna e Milano, mentre nel finale la città di Ghent sarà Trieste). E quando, se non fine anni'60, su una ruggente Jaguar E-Type che sfreccia lucente nella notte, beffando i poliziotti scatenati al suo inseguimento?
A guidarli troviamo il principale avversario di Diabolik, l'Ispettore Ginko (Valerio Mastandrea), pensoso poliziotto che armeggia sempre con la sua pipa. Ma non tarda a entrare in scena la femme fatale, Eva Kant (Miriam Leone). La storia raccontata in questo film, primo di tre dichiarati anche se con interprete maschile diverso, introduce le meccaniche fra i tre protagonisti, in vista di future avventure.
La trama gira, oltre che sul furto di un diamante rosa, sull'amore di Diabolik per Eva, che si deve affrancare da un passato compromettente, e sull'ossessione di Ginko nei confronti del malvivente. Ad affiancare Luca Marinelli nel ruolo del protagonista, troviamo anche Alessandro Roia, che è l'uomo di potere corrotto e accecato dalla passione, Serena Rossi, la moglie di Diabolik, all'oscuro dei segreti dell'amato, e Pier Giorgio Bellocchio, che è il Sergente Palmer, braccio destro di Ginko. Brevemente compare anche Claudia Gerini.
I Manetti Bros, Marco e Antonio, assidui frequentatori di rivisitazioni del cosiddetto cinema di genere, oltre che dirigere il film, firmano la sceneggiatura insieme a Michelangelo La Neve e Mario Gomboli, che da decenni scrive le storie del fumetto. Con questo loro Diabolik realizzano un omaggio rispettosissimo, filologicamente preciso, con una ricostruzione fedele allo spirito originale del fumetto, curatissimo quanto a scenografia e costumi. Siamo anche alla citazione dello stile narrativo di allora, che si estende perfino all'impostata recitazione degli attori, alle posture e all'intonazione della voce, alle battute dei dialoghi, alle musiche perfettamente citazioniste anch'esse (opera di Pivio e Aldo De Scalzi che contribuiscono a rivestire il film di una freddezza hitchkockiana).
Ma si adeguano anche i tempi narrativi, che sono assai lenti, scanditi quasi, e purtroppo, complice anche la fotografia spesso buia (in interni o notturna), questo insieme provoca un effetto mortifero, mentre certe inquadrature sembrano frame di un fotoromanzo, genere allora assai in voga. Al quale avevano guardato le autrici, le due ineffabili sorelle Giussani, soavi signore borghesi che mai si sarebbero dette capaci di simili audacie, mentre scrivevano storie ferme su carta ben più vivaci dei fotogrammi del film su grande schermo. Le storie, create a partire dal 1962, erano pubblicate su albi tascabili, per venire incontro alle esigenze dei pendolari, e avevano raggiunto tirature altissime (800 albi e 150 milioni di copie vendute), tradotte pure in esperanto, diventando un vero e proprio fenomeno di costume.
Avevano addirittura attirato ire censorie grazie anche allo spregiudicato rapporto di Diabolik con l'amante/complice Eva Kant (disegnata, si dice, sulle fattezze di Grace Kelly). Diabolik, il puro criminale, cinico e privo di morale, per il quale il fine giustificava qualunque mezzo, è stato precursore del genere "nero" (in opposizione al "giallo" dei thriller di allora), un personaggio inizialmente ricalcato sul celeberrimo Fantômas francese, un eroe negativo che ammazza disinvoltamente senza mai nessun rimorso e che si lascerà coinvolgere dal sentimento solo quando incontrerà una specie di suo doppio ideale, Eva Kant.
Qui il glaciale eroe è ben affidato a Luca Marinelli, obbligatoriamente impassibile, mentre Eva, solare e luminosa (momenti in cui la fotografia illumina la scena) è Miriam Leone, che fa esattamente ciò che il ruolo richiede, cioè la donna/diva sicura di sé e del proprio potere. Valerio Mastandrea è Ginko, impassibile pure lui, come se i personaggi fossero raffigurazioni visive dei corrispettivi su carta stampata e delle loro personalità importasse ben poco. Che è una scelta narrativa rispettosa, come dicevamo, ma che genera un risultato poco coinvolgente, che finisce per rendere assai poco avvincente quello che è un curatissimo film in costume con poca anima, come del resto il suo protagonista. Forse sarebbe stato meglio un compromesso fra queste ambizioni e il tono più pop/trash del film del '68.
Questo Diabolik sembra proprio indirizzato a un pubblico di appassionati (ma quanti saranno?), nostalgici di un'era davvero dell'innocenza, in cui la Chiesa cattolica stilava liste di fumetti consigliati o banditi, e la Legge aveva il buon tempo di occuparsi di un giornalino già preventivamente riservato agli adulti, temendo che potesse minare l'integrità morale delle nuove generazioni. Tutti argomenti che oggi sono lontanissimi dalla mente dello spettatore medio, incapace di cogliere il gusto dell'operazione retrò, in cui questo trattamento forse potrebbe generare perplessità e delusione, abituato com'è a ben altri ritmi. Quindi i Fratelli Manetti, abbandonando il loro stile ricco di iperboli e ironia, potrebbero aver realizzato un prodotto fin troppo colto per il mercato al quale si indirizzano. Vedremo il botteghino come risponderà.