Difficoltà e accessibilità non sono la stessa cosa - editoriale
L'accessibilità non passa da una modalità “facile” per i giochi di From Software come Sekiro.
Si può parlare di un "caso Sekiro"? Del gioco di From Software e della sua difficoltà si è parlato tanto. A un certo punto, però, il dibattito ha cambiato rotta; si è iniziato a parlare di accessibilità. Anche Cory Balrog, director di God of War, è subentrato nel dibattito, affermando che "l'accessibilità non è mai stata e mai sarà un compromesso alla mia visione", intendendo che implementare certe funzioni per rendere i suoi giochi adatti a tutti non ha mai sminuito l'opera nel suo complesso. Tanti sviluppatori sono intervenuti a difesa dell'accessibilità. Anche Steve Spohn, COO di Able Gamers, ha detto la sua, sottolineando che "il vostro godimento di un gioco single player non viene influenzato da come un'altra persona sceglie di esperire quello stesso videogioco".
Un discorso ampio e che deve essere affrontato da tutti gli attori coinvolti. Si è perso di vista, però, il punto cruciale: difficoltà e accessibilità non sono la stessa cosa. Implementare una modalità "facile" in produzioni come Sekiro - idea che è stata lanciata da varie persone - non renderebbe i giochi From Software più accessibili né l'industria videoludica nel suo complesso sarebbe più apprezzabile. Super Mario Run è un gioco accessibile: basta un dito per giocare l'esperienza dall'inizio alla fine, a prescindere dalla difficoltà della raccolta delle monete. Ma Super Mario Run è un gioco mobile - gli smartphone sono tra i mezzi più accessibili di tutti per videogiocare - ed è nato così; era la sua natura.
Un altro esempio di riferimento è l'Xbox Adaptive Controller di Microsoft, un apposito pad pensato per essere molto configurabile e appoggiabile su qualsiasi superficie piana. L'accessibilità riguarda il dare a tutti la stessa possibilità; per chi parte con capacità fisiche più limitate rispetto ad altri, implica fare in modo che uno strumento (come il pad, appunto) vada a compensare queste mancanze, ma ciò può passare anche da apposite opzioni del gioco stesso o del dispositivo. Il che, in soldoni, significa - tornando al "caso Sekiro" - fare in modo che tutti possano confrontarsi con l'estrema difficoltà di questo gioco. Discutere di una modalità "facile" sminuisce l'intero discorso e sposta il livello a "vincere o perdere". Un gioco, infatti, può essere facile eppure non sufficientemente accessibile.
I videogiochi, poi, sono un mezzo molto complicato da valutare. Cosa contraddistingue un gioco? Tanti ritengono che smuovere la difficoltà di un'esperienza come i "Soulsborne" o Sekiro significherebbe andare a impattare e, in un certo senso, sminuire il lavoro dei suoi creatori tanto quanto succederebbe chiedendo loro di cambiare tutta la grafica usando il cel shading. Ancora oggi stiamo studiando perché esattamente i videogiochi siano tanti immersivi, tanto alienanti e tanto coinvolgenti; una risposta facile non c'è.
Dal punto di vista creativo, quindi, non è semplice né dire che la difficoltà non altera l'esperienza né affermare il contrario. Gli sviluppatori hanno il diritto di fare giochi difficilissimi, che rappresentano, volendo, i "film d'autore" in versione videoludica: pochi li comprendono appieno, ma tutti devono avere le stesse possibilità di esperirli. Se From Software ha deciso che l'estrema difficoltà di Sekiro (e la necessità, per l'utente, di imparare le meccaniche e migliorarsi costantemente) debba essere l'essenza del suo gioco, allora lo faccia e, come moderni Voltaire, che gli utenti difendano il suo diritto creativo e commerciale a farlo. Sarà poi il pubblico, parlando delle vendite, a dire se tale scelta è stata vincente oppure no.
L'accessibilità non deve sminuire la difficoltà, ma anche il videogioco più difficile dovrebbe essere accessibile. E almeno su questo, vinciamo tutti.