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Parliamo (ancora) della difficoltà nei videogiochi - editoriale

Giochi troppo difficili e selettori della difficoltà.

Nel corso degli ultimi tre anni questa è la terza volta che ci troviamo a discutere di un argomento apparentemente spinoso e complesso, qualcosa che è in grado di spaccare intere community e di attirare tonnellate di critiche a prescindere dalla posizione che si sceglie di adottare. Stiamo parlando ovviamente della difficoltà nei videogiochi.

La prima volta è successo con Sekiro, quando orde di (potenziali) appassionati del titolo si sono sollevati in coro per richiedere l'inclusione di un selettore di difficoltà che permettesse a chiunque di godere dell'esperienza, puntando il dito anche su una presunta scarsa accessibilità. Una critica alla quale ha voluto rispondere anche LimitlessQuad, giocatore tetraplegico che ha condiviso tutta la sua esperienza sul titolo di From Software affermando che è stata una delle migliori della sua vita.

La seconda occasione è capitata quando la madre del fondatore di Vlambeer Rami Ismail ha avuto una "lite" con diversi gruppi di videogiocatori mentre difendeva l'inclusione di livelli di difficoltà più bassi all'interno dei videogiochi. Una soluzione, quella auspicata dalla signora, che ha ricevuto pollice verde anche da Cory Barlog di God of War e JP Kellams di Bayonetta, ma che non ha assolutamente convinto gli appassionati di alcuni titoli tirati in ballo nella disamina, come per l'appunto quelli dei videogiochi di Miyazaki.

Difficilmente incrementi o diminuzioni di statistiche possono influire su uno scontro di Sekiro Shadows Die Twice.

E ora eccoci qui, per la terza volta in tre anni, a tornare sull'argomento dopo che il papà di God of War David Jaffe si è pesantemente scagliato contro Metroid Dread di Nintendo, Returnal di Housemarque e Kena: Bridge of Spirits di Ember Lab, criticandone ampiamente il game design ma soprattutto "l'esagerato" livello di difficoltà attraverso parole particolarmente forti: "Tutti vanno nella direzione di giochi troppo difficili. Forse la generazione NES sta tornando... ma io odio questa m*rda".

Ora, a prescindere dall'opinione di Jaffe, ci viene voglia di giocare un po' a fare i sofisti e iniziare col dire che la difficoltà nei videogiochi non esiste. La difficoltà esiste concretamente solo nei videogiochi in cui è presente un selettore, perché si tratta di una qualità intrinsecamente percepita e assolutamente non propria dell'esperienza in esame.

Non esistono giochi facili o difficili, al limite possono esistere videogiochi più o meno sfidanti, o "challenging" per abusare di un inglesismo. In questa sottile differenza si nasconde una voragine, perché un buon videogioco sfidante non è sfidante per moda, per allungare il brodo, o per promuovere il gatekeeping. Un buon videogioco sfidante vede nell'elemento della sfida o in quello della curva di apprendimento una colonna portante che venendo a mancare farebbe crollare tutto il palazzo imbastito dagli autori.

Avete presente il brano Like a Virgin di Madonna? In quella canzone la popstar racconta di un'esperienza che la fa sentire come se fosse vergine. Se vi state chiedendo cosa centra Like a Virgin con la difficoltà nei videogiochi beh, centra eccome perché Sekiro: Shadows Die Twice è l'equivalente del singolo di Madonna realizzato da Hidetaka Miyazaki nei confini del medium.

In Metroid Dread, Jaffe ha particolarmente criticato le mura nascoste e la difficoltà nel trovare il percorso.

La straordinaria longevità che ha caratterizzato la serie di Dark Souls ha portato con sé un inaspettato effetto collaterale: chiunque avesse scalato la ripidissima curva di apprendimento fin dal primo capitolo non avrebbe mai più potuto esperire nuovamente il sapore unico della sfida e il profumo di auto-miglioramento che costituivano gli ingredienti segreti alla base della squisita ricetta di Lordran, vedendo un elemento essenziale del mosaico ludico staccarsi per sempre dalle produzioni successive.

Ma l'impossibile non esiste nel vocabolario di Miyazaki, ed ecco che Sekiro è riuscito a fare tornare "vergine" l'intera fanbase regalandogli nuovamente quel percorso di self-empowerment che era convinta di non poter vivere mai più, e facendolo attraverso un tappeto tecnico sfidante che qualora rimosso farebbe sfaldare tutto il pacchetto come un volatile castello di carte.

La domanda posta dalla maggior parte degli appassionati suona più o meno in questo modo: "Ma scusate, ma a voi cosa importa se anche io posso godere di un'esperienza facilitata? Non intaccherebbe in alcun modo la vostra percezione". Magari fosse così. Tralasciando il fatto che la produzione tecnica di uno studio come From Software non si può piegare neanche volendo di fronte alla domanda di una modalità facile, perché anche immaginando un Sekiro in cui si infliggono danni doppi e se ne ricevono la metà il livello di sfida non calerebbe di un'oncia, il problema principale riguarda la percezione che abbiamo dei livelli di difficoltà.

La verità è che nessuno sviluppatore in quarant'anni di storia è ancora riuscito a integrare un "vero" selettore della difficoltà, né tanto meno un'intelligenza artificiale capace di diventare al bisogno più o meno "intelligente". Quello che si fa nei videogiochi di oggi è aumentare o diminuire i parametri relativi ai punti vita, ai danni inflitti e subiti, ai tempi di reazione, alle routine di combattimento, realizzando di fatto varianti artificiali che non riescono a soddisfare nessun estremo dello spettro di appassionati.

Come si farebbe ad alzare o abbassare la difficoltà in un gioco come Crash Bandicoot?

La questione diventa ancora più complessa quando si prendono in considerazione quei videogiochi sfidanti che sono naturalmente privi del selettore di difficoltà. Come si può, ad esempio, diminuire e in certi casi anche aumentare il livello di sfida in prodotti come Super Mario, Crash Bandicoot, Outer Wilds o Monster Hunter? Proprio come nei soulslike di From Software, si tratta di titoli in cui alzare o abbassare dei nudi parametri non servirebbe a nulla: per portare un vero cambiamento bisognerebbe stravolgere i postulati che reggono in piedi l'intera architettura del game design.

E questo forse rappresenta l'epicentro del problema: la mancata percezione dell'anima del videogioco criticato che spesso porta all'aberrazione della curva di apprendimento, vista come un esubero e non come una vertebra insostituibile nella spina dorsale del progetto. Lo sfidante, tortuoso, lungo percorso che serve ad esempio per padroneggiare una singola arma sulle sponde di Monster Hunter al fine di diventare un cacciatore esperto è esso stesso Monster Hunter, è ciò che costituisce la ragion d'essere del videogioco.

Questo concetto di recente è stato addirittura concretizzato ed esposto all'interno della trama dei videogiochi in questione, cosa che è successa in Returnal, titolo nel quale le infinite morti della protagonista Selene Vassos sono tasselli fondamentali del mosaico narrativo. Nel caso dell'opera di Housemarque, un eventuale abbassamento del livello di difficoltà non porterebbe soltanto alla snaturazione del gameplay, ma darebbe vita a un'enorme dissonanza fra il giocato e il racconto.

È fisiologico che a sollevare la polemica sia una porzione del pubblico che quelle opere vorrebbe viverle ma non le ha ancora vissute, perché se ne conoscesse la natura in modo intimo gli risulterebbe probabilmente chiara l'inadeguatezza della pretesa di un abbassamento del livello di sfida, così come la reazione, spesso inadeguata e indubbiamente deprecabile, delle community di elitisti che hanno già compiuto il viaggio.

Ci sono giochi in cui volente o nolente la sfida è l'anima essenziale del progetto.

Ciò detto, le parole forti di David Jaffe celano una triste verità che sta caratterizzando alcuni segmenti dell'industria moderna, ovvero il perseguimento della difficoltà in quanto tale. Ben lontani dalla maestria e dalla filosofia dei grandi, alcuni sviluppatori vedono erroneamente nella sfida il segreto del successo - e non un singolo ingrediente in una ricetta molto complessa - pertanto innalzano la pura difficoltà in modo artificiale al fine di accattivarsi i "gatekeepers".

Se ad ogni forza ne corrisponde un'altra uguale e contraria, negli ultimi tempi abbiamo visto alcuni studi puntare su opzioni volte a semplificare le esperienze senza alterarle; l'ha fatto ad esempio Eidos Montreal con Shadow of the Tomb Raider, rendendo ben visibili su schermo i punti d'interazione per la risoluzione delle celebri tombe. Soluzioni di questo genere sono più che ben accette, ma è evidente che non siano applicabili all'interezza del medium.

Ed è proprio parlando dell'interezza del medium che vogliamo chiudere una disamina tanto delicata. Un medium ormai vasto, anzi, vastissimo, capace di soddisfare chi cerca esperienze sfidanti, grandi storie, competizioni, simulatori e opere rilassanti. Un medium aperto a tutti che tuttavia, in certi casi, chiede al giocatore di siglare un contratto con l'autore al fine di ottenere in cambio qualcosa di potenzialmente straordinario.