Il dilemma della longevità nei videogiochi - editoriale
Quanto deve essere lungo un videogioco?
Ormai siamo arrivati alla nona generazione di console per videogiochi, il medium ha raggiunto la sua piena maturità, e chi queste opere interattive le crea per mestiere si è fatto un'idea piuttosto precisa di ciò che funziona agli occhi del pubblico. Stiamo parlando di elementi che vanno ben oltre quelle che possono essere le mode del momento, di caratteristiche che, nel bene e nel male, saranno sempre e comunque passate al microscopio da un'immensa mole di appassionati.
Certo, numerosi publisher salgono sul carrozzone del genere più in voga in un determinato periodo, sia esso il battle royale o il gioco di carte collezionabili, ma in questo caso stiamo parlando di sviluppatori, non di produttori. E uno sviluppatore a certe cose ci pensa eccome: la durata del gioco sarà sufficiente per mantenere elevato il tasso di engagement? Ci sono abbastanza contenuti successivi alla conclusione dell'offerta principale? Che tipo di impatto avrà la proposta, specialmente se distante dal canone del mercato moderno?
Longevità, engagement, produzione di contenuti nel lungo periodo, offerta collaterale: questi sono ormai elementi essenziali di qualsiasi produzione, un vero e proprio motore nascosto che ha dato vita alla maggior parte dei contemporanei modelli di business. Siamo nell'epoca dei giochi come servizi, dei roguelike di lusso, dei pass battaglia, dei titoli che offrono più contenuti di quanti l'utenza ne riesca ad affrontare, che sono tutti figli della stessa madre, ovvero la quantità di tempo libero che riescono a sottrarre agli appassionati, ormai divenuta la vera misura del successo.
Uno dei concetti più affascinanti della teoria del game design, ad esempio, è quello della rigiocabilità. Un concetto assurdo, se ci pensate, perché è assolutamente esclusivo del videogioco. Ci vengono in mente ben pochi esempi in cui critici o consumatori prenderebbero in considerazione la riascoltabilità di una canzone, la rivisionabilità di un film, la rigustabilità di un piatto. Ecco, forse la discriminante risiede nel prezzo, perché quando si sborsano 70 o addirittura 80 euro per un'esperienza interattiva è più che lecito chiedersi quanto durerà la luna di miele con il prodotto. Ma torniamo un attimo indietro fino al 1996.
Pokémon è il videogioco che più di ogni altro ha subito l'impatto dello scorrere del tempo, vedendo sprofondare nel dimenticatoio quell'incredibile ispirazione che oggi, giustamente, viene criticata dagli aficionados delle ultime opere di Game Freak. E questo accade perché si tratta di un franchise che è nato e cresciuto durante lo scollinamento in un'epoca storica che avrebbe cambiato per sempre le regole del gioco.
Pokémon è nato in un mondo senza internet e poco avvezzo all'importazione, un mondo in cui le notizie e i trend si facevano strada molto lentamente, in cui la viralità era una conseguenza di un passaparola scaturito dalla qualità. Ciò significa che, quando Pokémon Rosso e Blu raggiunsero gli scaffali dei negozi europei, nessuno sapeva cosa si nascondesse oltre lo schermo del GameBoy.
In cosa si sarebbe evoluto quel Pokémon? E quando si sarebbe evoluto? Che cos'erano quegli uccelli che meritavano addirittura di comparire sulla mappa di gioco, posti in fondo a pericolosi dungeon? La voglia di districare il mistero, quella di acchiappare tutte le creature sconosciute, quella di lasciare casa ed esplorare tutto il mondo, sono divenuti i pilastri dimenticati di un universo unico nel suo genere.
La natura collezionistica di Pokémon, d'altra parte, finì per alimentare oltre ogni previsione la durata del fenomeno, spingendo milioni di ragazzi e ragazze a spendere centinaia di ore nella regione di Kanto. Ed è così che la longevità raggiunse le stelle, quella stessa longevità che, nelle pagine delle riviste di settore, veniva addirittura utilizzata come elemento di confronto ai fini dell'espressione del giudizio sulle opere.
Oggi, però, qualcosa è cambiato. Qualcosa è cambiato perché il pubblico si è fatto oltremodo eterogeneo, e nell'orbita delle produzioni tripla A i nuovi lanci vengono bollati non solo come troppo corti, ma talvolta addirittura come troppo lunghi. E ciò accade perché lo spettro dei videogiocatori si è ampliato enormemente, ed è evidente che l'opinione di chi dedica poche ore dopo cena a questa passione debba collidere con quella di chi, invece, può trascorrere i pomeriggi o intere nottate di fronte allo schermo.
Esiste la durata giusta per un videogioco? E se esiste, come deve essere perseguita? Attraverso la messa in scena di una componente principale lunga e appagante oppure per mezzo di espedienti e meccaniche collaterali pensate per aumentare le dimensioni dell'offerta?
Uno dei casi più recenti è quello generato da Resident Evil Village, un titolo che è stato tacciato di essere troppo breve da una nutrita schiera di appassionati, nonostante sia paradossalmente più lungo rispetto a numerosi capitoli della medesima saga. Ciò indica che c'è stata una netta inversione di tendenza nella percezione della longevità da parte del pubblico, che si è ormai abituato a ricevere avventure fuori scala.
È evidente che assumendo come metro di paragone le ultime release nella serie di Assassin's Creed, che offrono centinaia e centinaia di ore di contenuti, qualsiasi offerta rischia di risultare striminzita. Il fatto curioso è che, proprio nel caso di produzioni come Odissey e Valhalla, si sono alzate numerose voci per criticare l'eccessiva mole di attività, talvolta non pienamente curate.
La parte vocale del pubblico vorrebbe ricevere esperienze molto lunghe e caratterizzate al tempo stesso da un livello qualitativo che non sia altalenante, definizione che nell'ultimo periodo calza unicamente sul Red Dead Redemption 2 di Rockstar Games; il che è preoccupante, perché sono poche le software-house che detengono i mezzi per realizzare qualcosa di lontanamente simile all'opera magna degli studios.
Come dichiarato dall'ex-patron di SIE Shawn Layden, la produzione dei videogiochi AAA è ormai un processo estremamente impegnativo, dispendioso per gli sviluppatori, e le formule creative andrebbero riviste per collimare con le esigenze delle software-house. Un titolo come RDR2 può infatti contare su finanziamenti e tempistiche di produzione aliene a quella che solitamente rappresenta la norma.
La scelta che si para di fronte all'industria di prima fascia è molto complessa: al netto di enormi sacrifici bisogna decidere se costruire esperienze estremamente vaste e longeve sacrificando la qualità generale delle attività e il lavoro di rifinitura complessivo, oppure realizzare titoli più leggeri - proprio come Resident Evil Village - al fine di consegnare nelle mani degli utenti opere complete e ben limate.
Certo, ci sono diverse eccezioni eccellenti, come ad esempio The Witcher 3 di CD Projekt RED, che ha abbinato a un'immensa componente single-player una altrettanto corposa offerta collaterale curata al punto che Gwent, il gioco di carte collezionabili presente nell'opera, si è trasformato in una esperienza stand alone.
Un discorso simile vale per lo Skyrim di Bethesda, che ha trovato la sua fortuna proprio nella vastità e nella complessità del suo mondo, rendendo di fatto l'avventura un lunghissimo viaggio destinato ad imprimersi a fuoco nella memoria dei videogiocatori. Il problema nasce quando si finisce per ricondurre il successo di questi titoli alla vuota grandezza o alla semplice longevità, fallendo nell'attribuire il giusto peso a ciascun elemento dell'amalgama.
La lunghezza e la vastità di un'opera non sono infatti qualità assolute, perché devono poggiare su fondamenta estremamente solide per fare breccia nel cuore degli appassionati. Di recente, tuttavia, abbiamo assistito alla tendenza di voler spingere sempre più vicino al limite l'ampiezza delle mappe e la durata delle avventure, secondo un sistema che spesso si rivela inconcludente.
In fin dei conti, se prendiamo come termine di paragone il prodotto cinematografico, il medium del videogioco può contare su immensi vantaggi perché gli autori hanno la piena libertà nel prendersi tutto il tempo necessario per raggiungere i propri scopi creativi, mentre una pellicola dovrà sempre e comunque restare circoscritta in quelle che sono le tempistiche imposte dal grande schermo.
Un videogioco può permettersi di intrattenere il giocatore per un'ora come per cento, perché l'importante è che il risultato finale riesca a dar forma a quelli che sono gli obiettivi degli sviluppatori. Il problema sorge quando la produzione viene ricamata attorno all'obiettivo di risultare unicamente lunga e vasta, penalizzando di fatto l'esperienza nel suo insieme.
Non esistono videogiochi troppo lunghi o troppo corti; esistono videogiochi inutilmente lunghi rispetto al cardine dell'offerta e videogiochi eccessivamente brevi a fronte di ambizioni smisurate. Resident Evil Village si pone scopi tecnici e narrativi ben precisi per poi raggiungerli in tempi ragionevoli, cosa che ovviamente accade anche in juggernaut come Red Dead Redemption 2 e Skyrim, così come in titoli striminziti come il Journey di Thatgamecompany.
Riflettere sulla non-importanza della longevità intesa in senso assoluto nel moderno tessuto del videogioco, infine, rappresenta un'occasione d'oro per pensare a quale sia il reale obiettivo dell'analisi critica. Un obiettivo che non è, come molti pensano, quello di dire se un titolo sia bello o brutto, da comprare a occhi chiusi o da evitare, bensì quello di valutare la vicinanza del risultato alle ambizioni degli sviluppatori. E in questo senso, la longevità rappresenta solamente un elemento che deve porsi al servizio dell'opera senza mai diventarne la base.