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Donut County - recensione

Non tutti i buchi riescono con la ciambella.

Giocare a Donut County è un po' come guardare un film di Wes Anderson (I Tanenbaum, Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Grand Budapest Hotel). Si inizia senza sapere bene cosa aspettarsi, l'atmosfera è strana e le premesse narrative sono MOLTO strane. Dopo qualche minuto si ha quasi la tentazione di fermarsi ma poi qualcosa attira l'attenzione e in pochi minuti si viene totalmente catturati da quel "qualcosa" che anche dopo due ore non si riesce a definire.

L'atmosfera strana del gioco è chiara fin da subito e coinvolge un procione, una ragazzina, un coccodrillo senza lacrime, un gatto cuoco e via dicendo. Un cast del genere non si vede tutti i giorni e predispone in maniera positiva l'animo del giocatore curioso. Dicevamo del procione. Normalmente è un animaletto carino e dispettoso ma nel nostro caso si chiama BK, ama chattare e lavora in una start-up specializzata in... buchi a domicilio. Cosa sono quelle facce, vi avevamo avvertiti che si tratta di roba strana, no? Considerate che questa è solo la punta dell'iceberg di follia che fa da sfondo al semplice ma ipnotizzante gameplay di Donut County.

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Il concetto di base è simile ma al tempo stesso totalmente opposto a quello di Katamari Damacy. Mentre nel leggendario gioco di Namco ideato da Keita Takahashi si guidava una sorta di palla appiccicosa capace di inglobare oggetti sempre più voluminosi espandendosi a dismisura, in Donut County muoverete un buco nel terreno. Sarà inizialmente piccolo e potrete farci cadere dentro giusto qualche sassolino, fili d'erba, cespugli e via dicendo. Ben presto però le sue dimensioni aumenteranno e potrete iniziare ad ingoiare bocconi decisamente più corposi.

Un gioco dal gameplay così semplice deve per forza di cosa essere sorretto da una struttura in grado di solleticare l'interesse dell'utente quantomeno nel medio termine. Purtroppo da questo punto di vista Donut County è a dir poco carente. Far cadere cose in un buco è divertente per un po', ma se non si ha un obiettivo concreto da raggiungere (che in Katamari era rappresentato dalla necessità di raggiungere una "quota" dimensionale con la palla) e un'ampiezza adeguata dei livelli, l'appeal tende a scemare molto velocemente.

Gli stage invece sono piccolissimi, si concludono in pochi minuti e il ritmo è ulteriormente spezzettato da scenette divertenti ma praticamente inutili. Non servono particolari abilità per superare gli ostacoli e questo appiattisce ulteriormente la sensazione di sfida e di conseguenza il coinvolgimento.

Un gioco così semplice deve avere un sistema di controllo semplice, giusto? Esatto, infatti in Donut County userete solo una levetta analogica.

Fortunatamente non si ha quasi il tempo di annoiarsi perché la fine arriva proprio quando le cose iniziano a farsi interessanti. Le promesse iniziali vengono mortificate e anche quel paio di idee che spuntano fuori verso la fine vengono precipitate nell'oblio da titoli di coda troppo prematuri... perfino per un film di Wes Anderson. Ad allungare il brodo non basta un piccolo extra grazie al quale potrete visionare tutti gli elementi che siete riusciti ad ingoiare nel corso del gioco. Si cerca spasmodicamente qualcosa in più, una sfida degna di questo nome o una modalità segreta che purtroppo non esiste

Il comparto grafico di Donut County è volutamente minimal, in fondo a cosa ci servirebbero secchiate di poligoni ed effetti speciali in un gioco simile? Le tinte pastello dominano e i personaggi hanno un piacevole effetto retrò che riporta alla mente uno dei primi videoclip "poligonali" della storia: Money For Nothing dei Dire Straits. Rimanendo in tema musicale, la soundtrack del gioco è composta da pochi pezzi ma, come spesso accade in titoli indie come questo, alcuni di essi rimarranno installati nelle vostre orecchie per giorni.

Il divertimento che ricaverete da Donut County dipende tutto da che tipo di giocatore siete e da quanto per voi contano le dimensioni. L'idea di base non è originalissima ma lo stile c'è e la cura dal punto di vista artistico anche, ma purtroppo non basta. Le dimensioni del progetto sono davvero troppo ridotte anche per chi ama i titoli "mordi e fuggi". Non è un caso che il titolo in questione sia uscito anche su iPhone/iPad, piattaforme abituate a giochi da consumare nei ritagli di tempo.

La fisica è tutt'altro che realistica, ma è adattissima ad un titolo così leggero, che fa dell'immediatezza un suo punto di forza.

Con un ventaglio di livelli più ampio e una struttura più solida il titolo sviluppato da Ben Esposito - uno che in passato ha anche collaborato allo sviluppo di progetti ben più corposi come The Unfinished Swan e What Remains of Edith Finch - avrebbe potuto tranquillamente essere considerato l'erede spirituale di sua maestà Katamari.

5 / 10