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Dov'è finita la qualità? - editoriale

I controlli di Microsoft e Sony e il 'seal of quality' di Nintendo.

L'industria dei videogame ha un problema di qualità. Non bisogna essere addetti ai lavori o analisti di mercato per accorgersene: negli ultimi anni e mesi in particolare, quello di rilasciare giochi malfunzionanti o addirittura incompleti è, sostanzialmente, diventato un trend trasversale e adottato da una buona parte dei maggiori publisher di titoli, cosiddetti, "tripla-A".

Halo: The Master Chief Collection, Battlefield 4, Assassin's Creed: Unity, DriveClub: tutti questi giochi, alcuni dei quali basati sui brand più importanti e riconoscibili dell'intera industria, sono stati negli scorsi mesi al centro di altrettanti scandali che hanno creato un'enorme ondata di polemiche e scatenato forti dosi di scontento nella "base" dei gamer. Non per le loro scelte artistiche o di design, ma semplicemente per l'incapacità di fare quello che ogni prodotto rilasciato sul mercato dovrebbe fare: funzionare correttamente.

A chi segue il settore da prima che il mocassino passasse di moda, oppure a chi semplicemente ne conosce la storia, la situazione odierna potrà ricordare qualcosa che è già avvenuto nel mondo dei videogiochi. Nel 1983, l'enorme crisi della nostra industria (quella che arrivò quasi a spazzare via l'intero settore) originò infatti da una situazione molto simile: il software in circolazione era semplicemente troppo, tutto uguale, privo di controlli e in molti casi di infima qualità.

E.T. per Atari 2600: la pietra dello scandalo che contribuì a generare la crisi del 1983, quasi fatale per l'intera industria dei videogame.

Gli storici riassumono il "crack" dell'industria con l'immagine di E.T. per Atari 2600, tie-in di uno dei film più importanti dell'anno precedente e per questo prodotto in milioni e milioni di cartucce, ma caratterizzato da una qualità talmente bassa che il pubblico lo rigettò in toto, portando a oltre 500 milioni di dollari di perdite per il suo publisher (Atari, appunto) e diffondendo un panico generalizzato che culminò, in sostanza, col collasso dell'intera industria.

Il mondo dei videogiochi di allora, ovviamente, era molto diverso da quello odierno. La stessa idea di publisher "di terze parti" era ai suoi albori (Activision, prima in assoluto nel suo genere, era nata da una manciata di anni), quindi si operava in una sorta di anarchia generalizzata, in cui più o meno qualsiasi sviluppatore poteva rilasciare titoli per ogni piattaforma, senza alcuna sorta di licenza o di autorizzazione, con la sgradita conseguenza che alcuni giochi potevano addirittura non funzionare correttamente (o affatto) sul sistema per il quale venivano venduti.

La rinascita del settore avvenne quando Nintendo, una outsider totale per il mercato dell'intrattenimento elettronico occidentale, entrò di prepotenza sul mercato proponendo degli standard completamente nuovi: ogni gioco in uscita per il suo NES, infatti, doveva necessariamente essere autorizzato da Nintendo stessa con il suo "seal of quality". In sostanza, l'azienda si prendeva la briga di garantire a tutti i suoi clienti il corretto funzionamento di ogni singolo titolo presente nella libreria della console, anche di quelli non sviluppati da lei direttamente.

Il 'marchio di qualità' Nintendo consentì al pubblico di ritrovare la fiducia in un'industria che era divenuta isterica e inaffidabile.

Era nato il processo che oggi, nell'ambiente, si definisce "certificazione" e che negli anni successivi tutte le altre aziende operanti sul mercato avrebbero ripreso e adottato. In sostanza oggi ogni publisher si fa carico di testare internamente i suoi prodotti, ma l'ultima parola sulla possibilità di rilasciare o no un videogioco sulla determinata console spetta al detentore di piattaforma, che si riserva il diritto di valutarlo prima dell'uscita sugli scaffali.

Questo meccanismo ha funzionato a dovere per quasi 30 anni, con qualche occasionale singhiozzo, ma oggi dimostra di non essere più sufficiente. A seguito degli avanzamenti tecnologici avvenuti negli ultimi anni, il concetto di "corretto funzionamento" di un videogioco si è infatti reso molto più complesso di quanto non fosse un tempo.

Possiamo, ad esempio, definire "funzionante" un titolo basato su una forte componente online, i cui server si dimostrano però instabili come quelli di DriveClub o della Master Chief Collection di Halo? E com'è possibile che abbia oltrepassato indenne le maglie del "controllo qualità" di Sony e di Microsoft un titolo con i bug di Assassin's Creed: Unity?

A tale proposito, occorre fare una precisazione: l'attuale processo di "certificazione", in realtà, non si concentra tanto sulla funzionalità dei titoli dal punto di vista del gameplay, quanto su quella che viene definita "terminologia", ossia sull'aderenza del gioco a specifiche linee guida nel campo dei messaggi di sistema, della corretta citazione dei nomi, dei loghi eccetera. Ogni tasto, ad esempio, deve essere indicato utilizzando, appunto, la corretta terminologia (non si può definire "tondo" il tasto "cerchio", e così via); ogni schermata di salvataggio deve utilizzare i messaggi conformi ai dettami dell'azienda, eccetera.

Ironicamente, la maggior parte dei servizi di 'garanzia' offerti sui videogiochi riguarda l'integrità del supporto fisico (il disco), ma non il reale e corretto funzionamento di ciò che esso contiene.

Negli anni in cui ho lavorato nell'industria del controllo qualità (nel mio caso specifico, qualità linguistica), mi è capitato di vedere titoli rispediti al mittente per errori quasi impercettibili, come una lettera minuscola laddove la terminologia ufficiale dell'azienda ne prevedeva una maiuscola. Questo esempio basti a far capire la drammatica sproporzione che c'è, da parte dei detentori di piattaforma, tra l'attenzione all'aspetto della terminologia e quella riservata invece al controllo di qualità funzionale.

Chiaramente la corretta terminologia è importante e avere messaggi di sistema sbagliati o contraddittori può portare a problemi molto gravi durante l'esperienza di gioco, ma altrettanto fanno i bug, i disastri di server e la mancata ottimizzazione.

E nonostante le paradossali dichiarazioni di Ubisoft, che in occasione del posticipo della quarta patch ufficiale di Unity ha affermato urbi et orbi l'importanza del controllo della qualità (generando le prevedibili ironie), appare chiaro che questo aspetto fondamentale non può più essere lasciato alla coscienza dei singoli publisher, troppo spesso schiacciati da cicli di sviluppo asfissianti e da release date impossibili per preoccuparsi "anche" dell'effettiva qualità dei propri prodotti.

A chi continuasse comunque a chiedersi perché mai Sony e Microsoft dovrebbero garantire per la qualità di videogiochi creati da aziende terze, faccio notare un ulteriore dettaglio: molti di questi videogiochi, nell'epoca dei download digitali, vengono direttamente venduti da Sony e Microsoft attraverso i rispettivi store online, e sempre di più lo saranno in futuro. Così come i negozianti di oggetti fisici sono tenuti a garantirne il corretto funzionamento, pena la sostituzione diretta o il rimborso, non è sbagliato cominciare a pretendere una maggiore presa di responsabilità anche da parte di chi oggi vende le copie digitali dei nostri giochi.

Chi dovrebbe garantire all'acquirente il corretto funzionamento di un titolo acquistato da uno store digitale: il publisher oppure il venditore virtuale?

C'è bisogno, in sostanza, di nuovi e più accurati processi di valutazione qualitativa da parte dei detentori di piattaforma, così come di nuove politiche e di una nuova regolamentazione sulle vendite di beni digitali e sui diritti ad essi connessi. Il fatto stesso che Ubisoft abbia sentito l'esigenza di inserire una clausola in base alla quale chi accetta un gioco gratis come indennizzo per i problemi di Unity rinuncia, al contempo, ad intentare causa legale all'azienda, evidenzia in modo lampante quanto la situazione sia ormai divenuta grottesca e fuori controllo.

Venditori e clienti non possono continuare a guardarsi in cagnesco e con diffidenza: finirà per risultarne danneggiata l'intera industria. Immaginiamo invece uno scenario in cui compriamo dal nostro store virtuale preferito un titolo basato su una forte componente online, che però nelle prime settimane non vuole saperne di funzionare, e in base a questa conclamata e oggettiva situazione richiediamo ed otteniamo un rimborso completo direttamente dal venditore (digitale o meno) presso cui lo abbiamo acquistato.

Se questo fosse il nuovo standard di qualità dei videogiochi, una sorta di estensione al nuovo millennio del vecchio concetto di "seal of quality" introdotto da Nintendo negli anni '80, tutti dovremmo preoccuparci molto meno dei nostri acquisti al day one, e probabilmente anche il settore dei download digitali incontrerebbe minori difficoltà a crescere e diffondersi. Un risultato che Sony, Microsoft e Nintendo hanno tutto l'interesse a promuovere, e che dunque potrebbero e dovrebbero farsi carico di favorire.