Dragon Age: Origins
Baldur's Gate ha finalmente trovato il suo erede.
Molto spesso, pensando ai bei tempi andati, il giocatore “anziano” ama lasciarsi andare a luoghi comuni e cogitazioni che, a ben vedere, lasciano proprio il tempo che trovano. “Ah, quel gioco ancora merita più di qualsiasi cosa attualmente in commercio” oppure “Ah, quello si che era un gameplay fantastico, mica come oggi”.
Si stava meglio quando si stava peggio? A mio modo di vedere, no. Da amante del retrogaming, nutro profondo rispetto per ciò che è stato ma, avendo la fortuna di avere svariate macchine 'old' attaccate e funzionanti in salone, più volte ho potuto togliermi lo sfizio di vedere se, effettivamente, “una volta erano meglio”.
Beh, molto onestamente, così proprio non è. L’importanza del contesto resta fondamentale e chi è cresciuto a pane e cabinati, piuttosto che con un C64 o un Amiga 500, non può sperare che l’adolescente di oggi capisca o ammetta che fossero più belli “i nostri giochi”. E non mi sento affatto di biasimarli questi adolescenti, abituati all’alta definizione e a tutte quelle robe che oggi accompagnano produzioni degne di un blockbuster cinematografico. Vagli a spiegare che una volta si lavorava in garage…
Il discorso tuttavia, in alcuni casi, fila ancora. Esistono capolavori senza tempo, che resistono alle epoche videoludiche e che, una volta caricati, ti conquistano e conquistano anche chi, in quegli anni li, non era neppure nato o era troppo piccolo per capire. Sono quei titoli che i giornalisti e i semplici appassionati tentano di classificare tra i migliori di ogni tempo da quando esiste la critica specializzata: Mario, Metal Gear, Final Fantasy VII… eppure, a veder bene, il meglio del meglio, almeno secondo me, arriva dalla Commodore, con la mai troppo idolatrata Amiga di cui sopra e dal PC, quando ancora le console non erano ciò che sono oggi. Prodotti “commoventi” come Ultima, Daggerfall, Planescape, Dues Ex, System Shock, Diablo, Warcraft e poi lui: Baldur’s Gate.
Il sogno del bamboccio che leggeva i libri di Salvatore o la Dragonlance e sognava un’avventura interattiva nei Forgotten Realms, passando intere giornate con D&D. Un sogno che BioWare ha tramutato in realtà, stabilendo un termine di paragone per il genere RPG, mai neppure avvicinato nel corso degli anni. Fino ad oggi.
BioWare è tornata, con quello che è l’erede spirituale di quello storico e inarrivabile titolo e del suo sequel, Shadows of Amn.
Dragon Age: Origins ha per me già un enorme merito: avermi riportato a uno stato di berserk ai limiti del nerdismo estremo, come non mi capitava da quando ancora i videogiochi erano solo un’immensa passione ma non un lavoro. Quello stato di frenzy per cui conti i giorni mancanti all’uscita, ti esalti per ogni nuovo trailer, giri i forum di mezzo mondo per sapere tutto quello che devi e vai a bussare al Gamestop ogni 3 ore per sapere se la copia della tua Limited è arrivata oppure dovrai continuare a sollazzarti con il (fantastico) surrogato in flash, Dragon Age: Journeys, utile anche per sbloccare contenuti nella versione retail del gioco.
Poi finalmente arriva, la scarti, apri il manuale e senti quell’odore che solo una confezione appena aperta manda fuori, dando un occhio a mappe e mappette che già conosci a memoria, perché nel mentre, per non sbagliare, ti sei letto anche un romanzo proprio per non farti mancare nulla.
Accendi la console e di colpo hai di nuovo 15 anni. Del resto, non ti frega proprio niente…