E3 2019: Ghost Recon Breakpoint - prova
Il cacciatore diventa la preda.
Chi ha esplorato la giungla equatoriale di Wildlands conosce bene la sensazione di onnipotenza che si provava durante l'assalto alla roccaforte nemica, un valzer di proiettili sparati dall'ombra per liberare l'avamposto in un battito di ciglia, scherzando l'esercito privato del cartello e trasformandosi rapidamente nell'unico predatore alfa della regione.
Ecco: immaginate di trovarvi in una situazione diametralmente opposta, di muovervi nel cuore di un mondo completamente ostile, una regione in cui non solo non avete "amici" tra le file dei civili, ma siete costantemente braccati da avversari organizzati, silenziosi e versati nell'arte della caccia al Ghost, quasi fosse lo sport nazionale.
Questo è Ghost Recon Breakpoint: una guerriglia più che un'operazione militare, un'intifada nella quale la squadra rappresenta l'ultimo anello della catena alimentare, un rovesciamento completo dei rapporti di forza in cui Jon Bernthal, che molti di voi ricorderanno come lo Shane delle prime due stagioni di Walking Dead o il letale Frank Castle della serie The Punisher, non si farà alcuno scrupolo ad umiliarci più volte, facendoci sentire impotenti e abbandonati.
Inutile dire che l'amalgama sembra funzionare: sono proprio queste le situazioni in cui il marchio di Ghost Recon si esprime al meglio, aggiungendo alle incursioni combinate quella manciata di survival necessaria per insaporire l'offerta. Non siamo più macchine da guerra infallibili, ma semplici uomini delle forze speciali che si confrontano con avversari con il medesimo background; il problema è che i Lupi, questo il nome delle truppe guidate da Cole Walker, hanno alle spalle un enorme vantaggio numerico e tecnologico.
I panorami della Bolivia hanno ceduto il posto all'arcipelago di Auroa, nel cuore dell'Oceano Pacifico, un'ambientazione che ha permesso a Ubisoft di arricchire i biomi della scenografia, fra montagne innevate, colorati campi in fiore e aride zone desertiche. Tra una pietraia ed il ciglio di una rupe, è possibile piazzare un Bivacco per accedere alle opzioni di personalizzazione del protagonista, opzioni che prendono il largo dall'editor del personaggio e proseguono fino a definire il gameplay attraverso un sistema di classi.
Ogni specialista può contare su un kit di abilità ed un focus ben specifici: la nostra scelta è ricaduta sul Panther, guerriero estremamente versato nell'arte del Close Quarter Combat che premia l'approccio stealth e permette, ad esempio, di coprirsi di spray per sfuggire ai sensori dei droni avversari, o ancora di sfruttare una fiamma ossidrica per aprire un varco anche nelle recinzioni più resistenti.
L'incisività dietro la scelta della classe passa per la presenza delle ormai onnipresenti "ultimate abilities": se il Panther può sfruttare un fumogeno per svanire nel nulla e riposizionarsi velocemente, lo Sharpshooter non esiterà ad estrarre tre proiettili calibro .50, abbastanza potenti da forare la scocca dei droni più resistenti, mentre l'Assault si limita ad una semplice ed efficace modalità "berserk", riducendo i danni subiti e aumentando quelli inflitti per un tempo limitato.
Se già i cambiamenti nell'ambito della personalizzazione sembrerebbero dipingere un'esperienza piuttosto diversa rispetto a quella di Wildlands, ciò che ci ha veramente stupiti è l'inaspettata variazione dei ritmi di gioco. Breakpoint, infatti, contiene elementi di evidente ispirazione survival, e basta un semplice sguardo all'HUD per accendere i riflettori su una serie di meccaniche inedite piuttosto interessanti.
Anzitutto è stata inserita una barra della stamina, e non certo per decorazione: svuotare l'indicatore nel mezzo di uno scontro a fuoco significa muoversi goffamente, rischiando di perdere l'equilibrio lungo la terra fangosa o d'impantanarsi nel mezzo della neve fresca. Allo stesso modo bisogna evitare l'affaticamento, e nel nostro inventario faceva addirittura capolino una borraccia per l'acqua, suggerendo l'esistenza di qualche funzionalità legata al livello di idratazione.
Restando feriti in battaglia, poi, si possono sfruttare le siringhe per recuperare parte dell'integrità fisica, ma non si tratta del classico fluido miracoloso: ricevendo colpi particolarmente distruttivi, il nostro personaggio potrebbe infortunarsi, e dovrebbe ricorrere alle bende prima di poter compiere qualsiasi altra azione. E ancora, se un compagno dovesse restare sospeso tra la vita e la morte, tentare una manovra di rianimazione nel mezzo della pioggia di proiettili non sarebbe certo una buona idea, ed è consigliato trascinarlo al sicuro, magari dietro ad un albero o ad un cuneo di roccia, prima di rimetterlo in pista.
Ovviamente, questo genere di meccaniche non funzionerebbe senza un mondo di gioco costruito per essere ostile al punto giusto; anche se non abbiamo avuto tempo sufficiente per saggiare in modo esaustivo la qualità dei miglioramenti all'intelligenza artificiale, la presenza dei droni della Skell, decisamente più letali rispetto ai soldati semplici, basta di per sé ad alzare notevolmente l'asticella del livello di difficoltà.
Dimenticate le classiche incursioni all'acqua di rose in cui ci si può permettere qualsiasi strafalcione, a prescindere dal grado di collaborazione dei vostri compagni; su Auroa basta un semplice drone, un infido mortaio o una qualsiasi recluta armata di lanciarazzi per mettere in crisi l'ntero gruppo di fuoco. Del resto, il sistema delle classi non è certo stato inserito per caso, e trovandosi di fronte ad un Behemot, un particolare drone pesantemente corazzato, non si può sperare di avere la meglio senza un sapiente sfruttamento combinato di granate EMP e razzi di RPG.
Pur non avendo testato l'esperienza fino al midollo, abbiamo avuto la sensazione che questo capitolo di Ghost Recon abbia fatto sua gran parte della lezione impartita da The Division, investendo sulla cooperazione, sulla personalizzazione e, a quanto pare, integrando nell'opera anche vere e proprie Incursioni da affrontare in co-op, pensate per disegnare l'abbozzo di un reale comparto endgame. L'ipotesi sembrerebbe confermata dalla presenza dei drop al completamento di determinate attività, equipaggiamenti e armi che, oltre ad aumentare il "livello combattivo" del Ghost, si snodano lungo un classicissimo sistema di rarità.
Non bisogna figurarsi un'esperienza ricamata unicamente attorno alle esigenze del multigiocatore; certo, l'intera durata della main quest può essere affrontata assieme ad un gruppo di amici, ma il focus sulla componente narrativa avrà senza ombra di dubbio un'importanza fondamentale. Oltre alla presenza di dialoghi a risposta multipla, non bisogna dimenticare quel poco che sappiamo del background di Cole Walker, un uomo che potremmo definire 'uno di noi', un Ghost che, per necessità, ha preso le distanze dalla sua precedente vita fra i 'giusti'.
Aldilà della deriva "as a service", ci siamo trovati al cospetto di una pregevole evoluzione per la serie di Ghost Recon, un'esperienza che non solo punta a premiare e incoraggiare la cooperazione, ma arriva addirittura ad imporla, castigando senza esitazioni qualsiasi colpo di testa scaturito in seno al fireteam. In fin dei conti, escludendo la caccia ai devastanti Behemot della Skell ed un fallimentare assalto ad una base dei Lupi, l'universo di gioco nel quale ci siamo mossi non era null'altro che una versione migliorata e più varia rispetto a quella incontrata nel mare verde della Bolivia.
Vincono a mani basse la palma per l'innesto più interessante le meccaniche figlie dell'ispirazione survival, capaci di rendere ancor più appetitoso il rovesciamento nel rapporto di forza che lega i Ghost e gli ormai ex malcapitati avversari. Praticamente è sempre Ghost Recon, ma anziché limitarsi a mostrare i denti non ha paura di sferrare qualche morso, mettendo il giocatore all'angolo e spingendolo a cercare la mano di un compagno.
Restano ancora da interpretare tutte le novità legate al sistema di progressione e all'incisività del comparto endgame, sistemi che sembrano piuttosto vicini al "game as a service" principe di Ubisoft ma che, al tempo stesso, potrebbero aver le carte in regola per evitare lo sfruttamento superficiale di un mondo ancor più immenso di quello di Wildlands.