E3 2021: I publisher hanno smesso di vendere sogni o gli utenti hanno smesso di sognare? - editoriale
È cambiato l'E3, o siamo cambiati noi?
A qualche anno da oggi, mentre sorseggeremo qualcosa in uno sbiadito bar di periferia assistendo inermi all'esplosione dell'estate, finiremo col guardarci a vicenda dall'orlo di un opaco bicchiere di birra ponendoci una sola domanda: com'è potuto succedere? Chi l'ha reso possibile, chi lo ha permesso? Chi ha ucciso la fiera dei sogni?
Esagerazioni a parte, è sotto gli occhi di tutti che l'E3 sia irrimediabilmente cambiato, che abbia quasi rinunciato al suo vero scopo originale. Siamo sinceri, la kermesse Losangelina non ha mai voluto rappresentare il banco di prova delle aspettative del pubblico, quella è una cosa che si è imposta soltanto di recente. Piuttosto, una volta l'E3 era incaricato di fornire al suo pubblico una vivida e brillante visione del futuro dei videogiochi, equivaleva a un buco della serratura dal quale scorgere la grandezza e la magnificenza di quel che sarebbe venuto dopo, poco importa se quell'illusione prima o poi si sarebbe spezzata.
Non fraintendeteci, non riteniamo che l'E3 debba impersonare il trionfo del vaporware, tuttavia l'evento ha ormai assunto da tempo una declinazione asettica, ben lontana dai fasti di un passato in cui centinaia di giocatori urlavano a squarciagola nei teatri di Los Angeles all'annuncio di Twilight Princess o all'apparizione di Kratos durante il reveal del nuovo God of War.
Da cosa deriva questo lento, graduale cambiamento? Prima dello stesso E3, è la comunicazione che circonda i videogiochi ad essere cambiata. Da un po' di tempo a questa parte sembra che i publisher, quando si rivolgono al pubblico nel presentare i loro prodotti, camminino tra gli ordigni di uno sconfinato campo minato. Quando arriva l'appuntamento mediatico più importante dell'anno, che per le aziende spesso coincide con l'Electronic Entertainment Expo, esse scelgono sempre più frequentemente di affidarsi a materiali promozionali che vadano in direzione della concretezza, nel tentativo di convincere una platea che col passare degli inverni si è fatta sempre più scettica ed esigente.
Questa tendenza è talmente dominante da arrivare al paradosso, come avvenne nel 2018, quando Nintendo dedicò più di metà del suo Direct a Super Smash Bros. Ultimate, parlando del gioco per circa 25 minuti. La presentazione fu sicuramente interessante, almeno per un fan del celebre picchiaduro di casa Nintendo, ma si concentrò ostinatamente sulla sostanza, non riuscendo a dimostrare il carattere e il magnetismo necessari a coinvolgere il pubblico. In altre parole, mancava la "locura", quella spruzzata di pazzia che tinge tutto di simpatia, di colore, di paillettes.
C'è anche da dire che molti publisher, la grande N in primis, hanno dimostrato di voler rinunciare al contatto col pubblico volontariamente, e senza che la cosa li tangesse poi così tanto. Sony ad esempio, dopo i trionfali E3 del 2015 e del 2016, si è ritirata in una roccaforte di State of Play freddi e impersonali, che spesso hanno sofferto l'assenza di un palco e di un frontman che lo occupasse col suo carisma. In seguito all'abbandono dell'E3, la comunicazione in merito alle grandi esclusive per PS4 e PS5 è diventata più concreta e questo non rappresenta necessariamente un male, ma secondo noi nessun evento digitale potrà mai essere paragonabile ad alcune conferenze del recente passato di Sony, come quella del 2015 che vide gli spalti letteralmente implodere per gli annunci relativi all'atteso ritorno di Shenmue e al remake di Final Fantasy VII.
Quei due prodotti, per ragioni diverse, avrebbero poi disatteso alcune delle aspettative dei fan, eppure in quel momento questo dettaglio non contava affatto. Non era importante preoccuparsi della qualità del prodotto finale, in un solo istante il sogno di milioni di giocatori in tutto il mondo si era materializzato lì, davanti ai loro occhi, e quella magia era troppo potente per farsi scalfire dal sospetto e dal cinismo.
A proposito di cinismo, forse la comunicazione che ruota attorno ai videogiochi è cambiata per una ragione, per un motivo specifico che ne ha inevitabilmente accelerato la trasformazione. Probabilmente, l'E3 non è più lo stesso perché siamo cambiati noi prima di lui. Guardiamo alla recentissima presentazione di Horizon Forbidden West, il secondo capitolo dell'IP ideata da Guerrilla che si è recentemente offerta agli occhi del pubblico durante uno State of Play dedicato che ha anticipato l'E3 di qualche settimana.
Lo spettacolo visivo offerto da questo nuovo capitolo è sbalorditivo, specialmente considerando la sua natura cross-gen, ma ciò non è bastato a convincere una platea di giocatori sempre più esigente, la stessa che pretende che ogni produzione sia "bigger and better" rispetto alla precedente. Se un titolo non propone una netta rivoluzione, uno stacco dal passato, se non riesce a innovare i canoni del genere fissando nuovi standard per gli anni a venire, quel gioco non merita il nostro entusiasmo.
Scavando nella memoria storica della manifestazione, vi ricordate l'inatteso annuncio di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty all'E3 del 2000? Quei momenti rimarranno per sempre impressi nella mente di coloro che ebbero la fortuna di partecipare a quell'edizione, ma questo accadde perché il trailer fu in grado di convincere, di passare in rassegna tutti gli elementi che avrebbero reso questo titolo il capolavoro che tutti noi ricordiamo? Non esattamente.
Ai tempi, ci accontentavamo dell'idea prospettica di ritrovarci prima o poi nuovamente immersi nell'universo immaginato da Hideo Kojima, e questo era tutto ciò che serviva sapere. Pensandoci bene, forse l'E3 è cambiato perché è cambiata prima la comunicazione dei videogiochi, che a sua volta ha dovuto riflettere una trasformazione del suo pubblico di riferimento.
Tra polemiche, scandali e controversie che si moltiplicano nell'industria dei videogiochi, siamo noi stessi ad aver perso la capacità di sognare. Non è stata del tutto colpa nostra, poiché alcune compagnie hanno dimostrato con gli anni quanto possa essere ingannevole e al limite del fraudolento il marketing che circonda un videogioco. Tuttavia, la situazione attuale si avvicina pericolosamente a un empasse, in cui se un publisher mostra un gioco senza affidarsi a fronzoli di vario genere, le persone finiscono inevitabilmente con l'annoiarsi lamentando l'assenza di elementi in grado di farla sognare. Al contrario, se i materiali promozionali osano troppo nel tentativo di meravigliare e sorprendere la platea, essa stessa urlerà poi al downgrade e si lancerà nella più classica delle crociate di review bombing all'uscita del gioco.
Insomma, questo complesso rompicapo non sembra avere una soluzione semplice, anche considerando che l'E3 corre il serio rischio di non tornare mai più alla formula che lo contraddiceva prima della pandemia. Non è chiaro se il trend delle aziende che abbandonano i palchi in favore degli eventi digitali crescerà col passare degli anni, ma la verità è che siamo stati noi a volere un Expo diverso, a volerlo più concreto, più sobrio e privo di quegli eccessi che resero memorabili alcune sue edizioni.
Siamo convinti che sia fin troppo tardi per invertire questo processo, e malgrado sia avvilente dover ammettere che la magia dell'E3 è probabilmente svanita per sempre, possiamo consolarci col fatto di aver vissuto quei momenti, di aver saputo sognare. Se il purgatorio è il prezzo per aver volato tra le stelle della città degli angeli, allora ne sarà valsa la pena.