Elden Ring: ma sono io o è... 'lui'? - editoriale
Quando un gioco è così acclamato che a muovergli una critica ci si sente in colpa...
“Il fatto che Elden Ring abbia il 97 su Metacritic è la prova che ai recensori non importa nulla dell’interfaccia grafica. La mia vita è una menzogna”. Così si leggeva in un post apparso su Twitter il 3 marzo scorso; a scriverlo era Ahmed Salama, l'ex sviluppatore di Battlefield 2042 e ora attuale UX Director di Ubisoft. E che ci crediate o no, questo commento è passato per la mia testa almeno una volta per ogni mia sessione del gioco di Hidetaka Miyazaki.
Il 18 febbraio è uscito Horizon Forbidden West, e solo una settimana dopo Elden Ring: il passaggio tra i due open world non poteva essere più brutale e drammatico per chi, come il sottoscritto, ha speso (e sta spendendo) decine di ore su entrambi i titoli.
Il primo, come scritto più volte nel corso della mia recensione, fa parte di quel filone di open world alla Ubisoft che prendono per mano il giocatore e lo guidano dall’inizio alla fine dell’esperienza, cosicché il completamento (e dunque la fruizione) di ogni contenuto è solamente una questione di perseveranza.
Il secondo, invece, raccoglie l’eredità propria di Miyazaki e fa della mancanza d’informazione il suo cavallo di battaglia. Non ci sono molti altri blockbuster con questa impostazione sul mercato e l’unico vagamente accostabile credo sia Destiny, dove la trama va letteralmente estratta con le pinze da un mondo di gioco che dice giusto lo stretto indispensabile, e che offre non pochi contenuti segreti (che poi si traducono in armi esotiche o in catalizzatori per le stesse).
A riprova di ciò adduco gli ottimi Lorenzo Domenis e Michele Poggi, in arte Lorenzo Divus e Sabaku no Maiku, creator divenuti celebri per spiegare al loro pubblico quello che non dicono i giochi stessi. Ossia le criptiche lore che, senza il loro prezioso contributo, verrebbero godute (e comprese) in minima parte. Un fenomeno, questo, che non trova luogo negli open world “amichevoli” di cui sopra.
Questo editoriale, scritto in prossimità delle 100 ore su Elden Ring, nasce però da un dubbio: ha senso un gioco così tanto ostico, che la maggior parte delle persone manco arriva al secondo boss? E attenzione, non mi riferisco alla difficoltà ma all’ostinata mancanza d'informazioni.
Per trovare la chiave con cui aprire l’accademia di Raya Lucaria, ho dovuto consultare la nostra guida completa di Elden Ring che l’eroico Lorenzo sta aggiornando ed espandendo da settimane, con encomiabile impegno. Non si tratta di un dettaglio da poco, perché il trovare o meno quell’oggetto è vitale nella prosecuzione del gioco.
Il discorso non cambia, anzi s'aggrava, con le missioni secondarie: allo stato attuale in cui scrivo non ho ben capito dove sia andata Nepheli che ha appena lasciato la Tavola della Grazia; non mi è chiaro dove trovare il Mangiasterco per portare avanti la sua quest; non so bene a che step sono della quest di Millicent e non ricordo se ho mai avviato la missione di Fia. So che la quest esiste solamente perché la vedo linkata nella nostra guida, ma potrei anche averla mancata del tutto.
È un modo di intendere i videogiochi molto datato, che mi riporta ai tempi del Commodore 64 e dell'Amiga, quando non concludere i giochi era una cosa comune perché spesso non si capiva bene cosa fare o dove andare (e il mio inglese, da piccolo, era decisamente carente). Che fosse il caso di fare una minima concessione alla modernità deve averlo capito pure il caro Miyazaki, visto che in una patch successiva al lancio ha aggiunto (bontà sua) almeno la posizione degli NPC sulla mappa.
Si tratta però di davvero ben poca cosa rispetto a quello che potrebbe essere fatto (e se poi volesse rendere più leggibili le icone di stato, non se ne dispiacerebbe nessuno). E il fatto che sia stata rilasciata su iOS un’app come Shattered Ring, per tenere conto dei progressi degli utenti nelle missioni, è un altro campanello d’allarme che qualche concessione in più alla quality of life la si poteva fare.
Ma è anche vero il contrario, come già scritto sempre da Lorenzo, ormai diventato un accreditato teorico di Elden Ring: è proprio grazie al suo essere criptico, alle scarse informazioni che dà il gioco, che si è creata una tradizione orale e scritta che, nelle ultime sei settimane, ha fatto crescere a dismisura il buzz attorno al best seller di Bandai Namco. Io stesso era dai tempi di Returnal che non telefonavo a qualcuno per confrontarmi su come risolvere quella certa missione, e ciò non è accaduto né con Assassin’s Creed Valhalla né con Horizon Forbidden West: vorrà ben dire qualcosa, no?
“L'idea di cavalcare verso l'orizzonte senza l'ausilio di alcun indicatore, senza trovarsi davanti un percorso dorato e già piastrellato per giungere a una destinazione predeterminata, senza la benché minima idea di ciò che si nasconde nelle profondità di un castello oppure oltre un semplice ascensore, ha restituito all'esperienza targata FromSoftware un sapore che pochissime opere sono state in grado di tramandare nel corso degli anni”.
Così ha scritto Lorenzo nell’articolo Elden Ring ha ravvivato la fiamma dell'avventura, salvo poi aggiungere che il giocatore in Elden Ring è come “un esploratore che prima d'ogni altro mette piede nei confini di un'antica città perduta svelando i misteri di antiche civiltà, […] come un archeologo che per la prima volta varca la soglia di una piramide egizia”.
Elden Ring è un successo planetario che ha già venduto 12 milioni di copie, si dirà. Non solo: con 384 milioni di ore all'attivo nei profili tracciati e fino a 952.000 giocatori simultanei, su Stream è il quinto videogioco della storia della piattaforma, nonché il primo ci si limita ad analizzare i soli titoli single-player.
Ergo la formula è vincente e, come ricorda sempre Lorenzo in un altro suo articolo dal titolo Perché Elden Ring sta avendo tanto successo: un'analisi di game design, “Elden Ring non finisce quando si spegne la console ma continua quando si chiacchiera con gli amici, si guardano video e si seguono dirette”.
Eppure, nonostante sottoscriva le analisi di Lorenzo e di altri miei illustri colleghi, nonostante sia a quasi 100 ore di giocato e accenda la console appena ho due minuti liberi per proseguire l’avventura, non mi sento di genuflettermi di fronte all’ultima fatica di Myazaki. Che è un bellissimo gioco, probabilmente il GOTY di quest’anno (mancano però ancora otto mesi), ma che in alcuni frangenti poteva essere fatto meglio.
Ai vecchi tempi della carta stampata, quando non c’era Internet e se ci si bloccava in un videogioco bisognava mandare una lettera alla redazione e sperare di essere selezionati, per poi leggere la risposta non prima del mese successivo, il gioco l’avrei sicuramente già mollato. Oggi la mia perseveranza fatta di guide, video su YouTube e telefonate agli amici sta venendo ricompensata da una delle più elettrizzanti esperienze ludiche degli ultimi anni. Ma è accettabile nel 2022 doversi sbattere così tanto per godere un videogioco?
D'altronde: Elden Ring sarebbe ancora se stesso se avesse un quest-log? Manterrebbe intatto il suo fascino se avessimo un marker sulla mappa che ci indicasse dove trovare Millicent? La risposta è ovviamente negativa. No, non sarebbe un Soluls, quantomeno nella nostra accezione di questa tipologia di giochi. Eppure sento il bisogno di riallacciarmi a una frase di Francesco Serino apparsa in una sua interessante analisi di Elden Ring: “sconfiggere i nemici, non il gioco”.
Ecco, mi sento di ribaltarla per descrivere la sensazione che spesso provo con Elden Ring: quella cioè di dover combattere non solo contro i fantasiosi nemici dell'Interregno ma contro il gioco stesso, che pare recalcitrante a farsi godere appieno. E di fronte a un pubblico e a una critica che si sta spellando mani da settimane a furia di applaudire, mi sta quasi venendo il dubbio che il problema non sia il gioco ma io stesso.
Oppure no? C’è qualcun altro lì fuori che la pensa come me? Nel caso, fatemelo sapere qui sotto nei commenti: mi sentirò senz'altro meno solo.