Elvis recensione – Dio salvi il Re, perché lui non può farlo
“Ogni sogno che ho fatto si è avverato un centinaio di volte”.
Ma è morto davvero Elvis Presley, o è ancora vivo sotto falso nome da qualche parte del mondo, come certi complottisti vagheggiamo, alla stregua di Marilyn Monroe, Michael Jackson, Jim Morrison?
Quello che è certo è che non è più tra noi e non lo sarebbe probabilmente anche per raggiunti limiti di età. Elvis infatti era nato nel lontano 1935, anni ancora di grande conformismo, di repressione sessuale, di razzismo senza vergogna, di assenza totale del cosiddetto “stato sociale”. Del resto questa è sempre stata l’America, uno su mille ce la fa e chi non riesce vuol dire che non ne è stato capace, è solo colpa sua. Se questa era “l’innocenza” spazzata via dal suo successo, faticosamente scalato nel corso degli anni ’50, non possiamo che ringraziare lui e le sue “pelvi” per aver ribaltato con una mossa tanta ipocrisia.
Elvis era figlio di bianchi, poveri però, sfrattati e costretti a trasferirsi a Memphis in un quartiere nero, dove gli affitti erano bassi, scelta però che sarà decisiva per il ragazzo, attratto da un ambiente musicale vitale, dai cori gospel, dai blues dei locali “peccaminosi” per sola gente di colore, dalla sensualità priva di ipocrisia di quella parte della società. Inizia quindi a suonare la chitarra, a cantare, a improvvisare un suo stile, a crearsi un’immagine. Si fa notare, trova un piccolo produttore, le radio locali lo trasmettono, la stampa ne parla, i concerti si affollano, le ragazze lo idolatrano, diventa un sex symbol che scandalizza i benpensanti e mette in agitazione le forze dell’ordine. Nasce il mito. Compera Graceland, per la Famiglia.
Incredibilmente però la sua vita non sarà improntata a quella sana ribellione che sembrava trasmettere negli esordi. Questa vita esagerata, questo lampo che ha illuminato il cielo della musica in quegli anni pre-Beatles/Rolling Stones/Bob Dylan, è durato tutto sommato poco, Elvis infatti inanella una quantità di hit esagerata solo fra il ’54 e il 57. Ma l’elemento decisivo, che ha sancito inizio e fine, è stato un elemento esterno, che di creativo aveva solo la finanza: il famigerato Colonnello Tom Parker. Vero nome Andreas van Kuijk, un emigrato di origine olandese arrivato nel Nuovo Mondo proprio per quello scopo, fare fortuna. Era un imbonitore da fiera con il vizio del gioco d’azzardo, un manipolatore astuto, un affarista privo di qualunque scrupolo, che vivacchiava nel circuito country.
La fiammata della carriera di Elvis come cantante sembra quasi conclusa nel 1958, con i due anni di servizio militare svolti in Germana, recuperati in fretta e furia per darsi un’immagine più morigerata. Presley era infatti vittima di campagne denigratorie, a rischio di arresto per turbativa dell’ordine pubblico, con quel bacino che si protendeva verso il pubblico e scatenava reazioni tanto più isteriche quanto più infrangeva la repressione imposta. Perché la sessualità libera, senza impegni, ha sempre fatto male al Sistema, che vorrebbe tutti docili padri di famiglia monogami, che non si possono permettere colpi di testa, tutti casa, mutuo e rate. E non parliamo delle donne, loro solo casalinghe disperate.
Intanto però prende il via anche una carriera cinematografica, alla quale Elvis tiene moltissimo, da ammiratore di Brando e Dean, ovviamente, quella “generazione perduta” che sembrava appartenergli, anche se si limiterà a titoli di genere. Incapace però di gestirsi da solo, rimasto privo dell’amatissima madre, con un padre inetto, mentre i gusti musicali delle masse cambiavano, deve assestarsi su una routine finanziariamente soddisfacente (per il Colonnello, per lui, per tutta la sua corte parassitaria di amici d’infanzia, detti appunto Memphis Mafia). Una routine soffocante come una galera, che ha sicuramente pavimentato la sua strada verso l’inferno, anche se ricoperta di soffice moquette.
Farà ancora esibizioni e concerti in giro per il paese, rinunciando sempre al grande tour mondiale tanto vagheggiato, riuscendo a fare di testa sua in un paio di occasioni. Ma alla fine, si lascerà rinchiudere all’International di Las Vegas, il suo personale “Heartbreak Hotel”, come una bestia da esposizione, per una clientela di ricchi turisti borghesi, quelli che proprio là nei suoi esordi lo avevano fischiato. Intanto si esaurisce anche il suo matrimonio con la sempre amata Priscilla. Per lui la strada del successo è stata costellata da perdite e il vuoto che lasciavano veniva riempito con tutti i giocattoli che la ricchezza consentiva, tanti, troppi.
Se è vero che “la luce che arde col doppio splendore brucia in metà tempo”, Elvis è stato come un razzo sparato verso l’infinito che, perso lo slancio, appesantito dal suo stesso carico, ha ripiegato la sua rotta verso la terra, andandosi a schiantare prematuramente. A 42 anni, Elvis “lascerà il palazzo”, per parafrasare quanto annunciava lo speaker alla conclusione di ogni serata, per disperdere il pubblico.
Un finale appassionato e commovente cala a concludere un film che parlerà al cuore di quanti certi avvenimenti, Elvis compreso, li hanno vissuti, a chi poi ne ha sentito raccontare dalla generazione precedente, magari ascoltando i suoi dischi, guardando i film o le immagini delle sue esibizioni. Non sappiamo quanto interessante possa essere oggi per un pubblico giovane.
Che però dovrebbe essere in grado di farsi prendere dalla straordinaria ricchezza visiva e sonora della messa in scena, dalla pazzesca prestazione di Austin Butler, che difficilmente troverà un altro ruolo in cui risplendere in tale modo (solo guardando il film nell’originale si potrà apprezzare l’eccezionale lavoro svolto sulla voce). Pensare che finora Butler aveva partecipato senza brillare particolarmente a molte serie tv e aveva avuto una particina in C’era una volta...a Hollywood. Si era però fatto notare da Luhrmann a Broadway accanto a Denzel Washington nel dramma di O’Neill The Iceman Cometh.
La storia (scritta dallo stesso regista insieme a Jeremy Doner, poi per la sceneggiatura sono stati affiancati da Sam Bromell e Craig Pearce) è un atto d’accusa spietato contro Parker, l’affarista, lo speculatore senza pregi se non la sua furbizia, facile Mefistofele per un giovane artista pieno di entusiasmo ma anche di ingenuità. Tom Hanks si affoga in una tuta di lattice come Gary Oldman per la sua interpretazione di Churchill, eppure riesce a rendere viscido e inquietante il suo manipolatorio personaggio, mutando l’amichevole sguardo dei suoi occhi azzurri in qualcosa di malevolo.
Le sequenze di alcune esibizioni sono quasi stordenti per la loro potenza, grazie a una regia che usa fotografia, montaggio, fusione di musiche, rumori ambientali ed effetti sonori, costumi, scenografie, come solo Luhrmann oggi sa fare. Elvis è uno di quei film che mentre emoziona profondamente, riesce a colpire anche uno spettatore comune con i dettagli tecnici, che del resto concorrono proprio a causare quell’emozione.
Quanto alle notissime canzoni che riascolteremo, spezzoni, brandelli, dalle radio, in sala di registrazione, nei concerti, alcune sono eseguite da Austin Butler, di altre c’è la versione originale. Due hit celeberrime echeggiano spesso, mischiate ad altre tracce sonore, a rumori di fondo e dialoghi, quasi a livello subliminale, Can’t Help Falling in Love e Are You Lonesome Tonight, quest’ultima anche in una versione funerea, bellissima.
Baz Luhrmann mette in scena con il suo stile saturo di dettagli un affresco fra cronaca e storia, che adombra il percorso stesso degli Stati Uniti in quegli anni. Come se negli anni ‘60/70 dopo tanto dirompente furore, dopo tanta rottura sfacciata, il ripiegarsi su Las Vegas, rimpinzati di cibo e droghe, fosse metafora del destino che è toccato anche a quel paese che avrebbe potuto essere davvero grande e non ce l’ha fatta.
Luhrmann riesce a rispettare una basica linea biografica, omettendo un paio di dettagli forse perché non funzionali al suo ritratto, che non fa di Elvis un angelo caduto, un martire del Sistema crudele, una vittima della celebrità. O meglio è di tutto un po’, ma ogni passaggio è motivato, sentimentalmente e artisticamente, fino all’ultimo. E qualunque fosse il giudizio sulla persona, resta quello inequivocabile sul personaggio, che una volta costretto entro il suo limite, lì si è speso con disumana coerenza fino alla fine.
Per capire come si può raccontare piacevolmente una vita e come lo può fare invece questo film, basterebbe fare un confronto con il dignitoso film di John Carpenter, Elvis il Re del Rock, nel 1979 già omaggio al personaggio, due anni dopo la sua morte, con un ottimo Kurt Russell. Quello era un film, questo è Baz Luhrmann. Un’esperienza totalizzante dal punto di vista estetico che però a forza di tasselli visivi e sonori compone un quadro emotivamente fortissimo.
Quando nei mesi scorsi lamentavamo il vuoto provocato dalla chiusura delle sale cinematografiche, l’assenza di grandi titoli con nomi di richiamo, senza saperlo stavamo aspettando Elvis. Certo ci sono bellissimi film indipendenti girati con un iPhone. Ogni tanto però dateci uno spettacolo come questo.