Fallimento e trascendenza nel samsāra di Dark Souls - editoriale
La filosofia dell'illuminazione nell'opera di From Software.
"Colui che è privo di ragione, senza criterio, sempre impuro, costui non giunge alla sede [suprema], ma ricade nel ciclo delle esistenze". La dottrina dei testi Veda, risalente al 700 a.C., ha generato quella moltitudine di correnti spirituali legate al ciclo di vita, morte e rinascita, introducendo una ruota del fato che nel tempo è divenuta la base del brahmanesimo, del giainismo, dell'induismo e del buddismo.
Il samsāra è l'oceano dell'esistenza, un costrutto privo di sostanza e agitato da dolore e sofferenze, un'illusione sostenuta dall'ignoranza spirituale dell'essere umano, creatura incapace di distinguere il miraggio e condannata ad agire in eterno, andando alla costante ricerca della liberazione. Il ciclo di rimorte e rinascita è una costante nelle filosofie orientali, ed è il presupposto necessario per raggiungere o esperire fugaci istanti della trascendenza nel nirvana.
"Sei morto". È con queste parole che lo spietato universo di Dark Souls offre il suo benvenuto fra i fumosi confini di Lordran, un mondo paralizzato nell'immobile entropia del bivio cosmico. Non ci sono flussi, non c'è lo scorrere del tempo, c'è un piano fisico che resta immutabile fino alla fatidica scelta finale, mentre l'unica pedina in movimento è quella gestita dal giocatore. Un personaggio che resta saldamente incatenato al miraggio attraverso la maledizione del Segno Oscuro, sentenza che lo condanna a tornare dopo ciascuna scomparsa.
Dark Souls è un videogioco difficile. Il tessuto creativo dell'opera trova la sua ragion d'essere proprio nella costante tenuta in scacco del giocatore, che nel rispetto di questa condizione si trova ad impersonare un semplice pedone di scarsissimo valore, una creatura nata dalla polvere e destinata a ritornare polvere più e più volte. A prescindere dalla personale opinione che si può avere della curva d'apprendimento, c'è un'insindacabile verità che è impossibile ignorare.
Dark Souls, per sua stessa natura, è uno spietato carceriere che tiene il giocatore sotto un'inesorabile minaccia: privare di qualsiasi significato grandissime quantità di tempo investito. Si tratta di un meccanismo spersonalizzante che difficilmente trova spazio nel substrato del videogioco, essendo spesso e volentieri associato alla nuda frustrazione. La perdita di tempo, in effetti, è una delle punizioni peggiori fra quelle che il medium può decidere d'infliggerci.
Ma non finisce qui. Oltre a vanificare ore di fatiche secondo un sistema di brutale giustizia, l'assenza di progressione a fronte dell'enorme sforzo priva il giocatore di un senso, alzando il sipario sull'insostanziale esistenza tipica del samsāra. Date queste ruvide premesse, com'è possibile che milioni di appassionati siano rimasti imbrigliati fra i meccanismi dell'opera, divenuta senza dubbio una fra le produzioni più rivoluzionarie degli ultimi quindici anni?
Per molti, la fortuna della serie si deve alla sua personale interpretazione del concetto dell'apprendimento. A quella potentissima emozione che trafigge il giocatore dopo aver conquistato un avversario apparentemente invincibile, spesso sé stesso, reinterpretando le filosofie tradizionalmente legate ad arti marziali come il Karate ed il Kung Fu. Eppure, sul piano psicologico, siamo certi che la ragione sia ben più profonda.
Verrebbe quasi naturale accostare la natura della serie ad un'intricata metafora della lotta alla depressione: c'è una fiamma, eterna fonte di potere, che è ormai ridotta ad una flebile brace senza vita; noi, fragili creature al cospetto di ostacoli insormontabili, dobbiamo dare l'anima nel disperato tentativo di raggiungerla, sia che volessimo ravvivarla, sia che scegliessimo di ignorarla dopo averla finalmente dominata.
Ma la verità è che nonostante la tremenda minaccia della spersonalizzazione e nonostante il terribile castigo della condanna al ciclo di rimorte, Dark Souls ha la straordinaria capacità di lasciar sempre socchiusa una luminosa porta verso la trascendenza. Studiosi del medium come Aaron Suduiko hanno interpretato questa possibilità come una frattura nel tessuto nichilista del lavoro di Miyazaki, ma oltre il velo della scelta si nasconde ben altro.
In un mondo governato dal dolore e dal fallimento, chiunque, a prescindere dall'effettiva abilità individuale, può varcare quella soglia ed entrare in uno stato di sincronia trascendentale con le trame dell'opera, agendo in modo sempre corretto e dominando completamente il codice nascosto dietro alla matrice. È molto facile abbandonare Dark Souls dopo aver mosso i primi passi in Lordran, quando ancora sembra impossibile districarsi nel mondo ostile, ma diventa quasi impossibile una volta che si è assaporata una tale sensazione di potere e liberazione.
Una volta toccata con mano, questa si trasforma in una forza inesorabile che, mescolando il nichilismo con il pur opposto messaggio dei testi Veda, spinge il giocatore al costante perseguimento di quei momenti di perfetta esistenza tipica del superuomo. Così, in pochi istanti, l'opera cessa di nutrirsi della sofferenza per consegnare nelle mani del giocatore le chiavi di un intero universo, facendogli abbandonare il sentiero della mera sopravvivenza al dolore per fargli imboccare quello, decisamente più arduo, della dominazione.
Non esistono persone adatte all'opera di From Software e categorie più fragili, ma solamente alcuni individui ancora costretti nella sola sofferenza del samsāra e altri che sono stati toccati da un lampo di trascendenza, poi trasformatosi in una vera e propria valanga.
Lo studio giapponese non ha mai tentato di celare alla vista del pubblico il sottotesto legato alla necessità di "oltrepassare il limite", ed è fisiologico che migliaia di persone non credano in questo genere d'interpretazione del videogioco, considerando quella che viene definita 'difficoltà' come un ostacolo accessorio e fine a sé stesso, senza comprendere l'incalcolabile peso che questa esercita nell'economia delle opere.
Sekiro: Shadows Die Twice rappresenta la corrente più distante dalla tradizionale metafisica dei soulslike: è decisamente più materiale nel trionfo della disciplina, del rigore e dell'automiglioramento quali culmine del processo di apprendimento orientale. Bloodborne, dal canto suo, arriva a poggiare persino le basi dell'universo narrativo sull'idea del superamento trascendentale, mettendo a centro dell'offerta l'abbandono della condizione di cecità tipica dell'essere umano.
"Coloro che conquistano i mondi celesti con il sacrificio, costoro entrano nel fumo, dal fumo [passano] nella notte, [...] dalla notte nella luna. Giunti che siano alla luna, essi diventano nutrimento e gli dei quivi se ne cibano". Questo passo dei Veda sottolinea prepotentemente il legame con l'opera di Miyazaki, a prescindere dalla distanza che lo separa dall'ispirazione Lovecraftiana nell'incubo di Yharnam. Coloro che conoscono a fondo i segreti dei grandi esseri, coglieranno ancor di più l'importanza di questo passaggio.
From Software vive una relazione simbiotica con il concetto del superamento trascendentale, e non solo perché quest'ultimo costituisce l'anima celata fra le meccaniche delle sue opere, ma soprattutto perché diventa il presupposto indispensabile alla base delle sue cosmogonie. Infatti, anche a Lordran, le prove degli dei sono pensate per far raggiungere al non morto prescelto quello stato d'illuminazione necessario per leggere fra le pieghe dell'illusione, affinché egli sia pronto per accettare il proprio destino.
I richiami alla ciclica orientale sono sempre evidenti sullo sfondo della fornace, e non hanno mancato di emergere anche dall'ultima iterazione, un punto fermo che ha chiuso l'anello causale nella saga dell'anima oscura. Ad esempio, c'è il Crestfallen Warrior, specchio di quei giocatori privati di un senso per timore del fallimento, un'entità rimasta perennemente intrappolata nel turbine dell'autocommiserazione e pronta a schernire i nostri tentativi di evasione.
All'opposto, negli stretti confini della narrativa ciclica, lo scopo del giocatore non dev'essere quello di raggiungere l'obiettivo posto in fondo all'avventura, quel Sacro Graal rappresentato dalla prima fiamma o dalla fine del sogno. Lo schema precostituito della scelta che avviene nel finale, infatti, è parte integrante del miraggio.
Solamente la trascendenza può spezzare le catene che costringono il giocatore, elevandolo ad uno stato di libertà sufficiente per vedere oltre i limiti dell'illusione, per non essere più una vittima e per trasformarsi finalmente nel padrone del proprio destino. Solo in questo modo diventa possibile esplorare veramente i costrutti di From Software, svelando tutte le incredibili sfaccettature consapevolmente riservate ai soli eletti del nirvana.