Gamification, il futuro è nel gioco - intervista
Uno dei massimi esperti di gamification è italiano. Ci abbiamo parlato e ci ha prospettato scenari sorprendenti.
La gamification è l'applicazione dei concetti di game design ad ambiti non ludici come l'organizzazione del lavoro, la pubblica amministrazione, il marketing. Immaginate una squadra di operai che affronta la giornata scegliendo obiettivi, guadagnando punti, scalando livelli; oppure pensate alla vostra routine in palestra e paragonatela con il grinding che si compie in un MMO. O ancora, riflettete sulle pagine-profilo di Steam con badge, obiettivi, achievement.
Tutto questo, e molto altro, è gamification, e per cercare di avere le idee un po' più chiare, e cercare di capire fin dove realisticamente ci si potrà spingere, abbiamo intervistato Fabio Viola, founder di GameVenture (società di consulenza per team di sviluppo) e docente di gamification design presso lo IED di Milano. Recentemente è stato annoverato tra i primi 50 esperti mondiali di gamification, per la precisione al 45° posto: un'eccellenza italiana!.
Fabio, come si arriva a fare questo lavoro così interessante? Quali sono le tue radici videoludiche?
Inizia tutto nel 1987 con il Commodore 64, cosa non facile ai tempi e nel paesino della Puglia in cui vivevo; ma, tra la scusa di usarlo per scopi educativi e la mia grande insistenza, riuscii a farmelo regalare. Videogiocatore, quindi, anche se non super-incallito.
La vera accelerazione, tuttavia, arriva con Internet nel '97 e con l'inizio di un proto-lavoro come recensore per uno dei primi siti mono-piattaforma, PSX Millenium. Qui diventai webmaster e passammo presto a lavorare per Multiplayer.it nel loro sito console, joypad.it.
Questa esperienza editoriale mi servì per capire come funzionava il settore dei videogiochi sul lato delle PR e del marketing. Il passo successivo avviene nel 2002, anno in cui fondo una piccola società, Italia Network Service, che si occupa sia di consulenza del mobile gaming (soprattutto per Nokia), sia di gestire il primo sito italiano proprio sul mobile gaming, wirelessgaming.it.
Da qui la cosa si sviluppa ed entro in contatto con i vari operatori telefonici che mi coinvolgono come esperto di gaming in alcuni progetti. Questa esperienza mi ha fruttato il primo lavoro continuativo per Electronic Arts come responsabile comunicazione dei prodotti mobile.
Ma quando avviene il passaggio dal gaming puro al gaming applicato ad altri contesti?
Nel 2006 circa, e la scintilla scocca, come spesso succede, con un libro, Game Based Marketing (di Gabe Zichermann), che è un po' il primo testo ad accennare a concetti che saranno poi propri della Gamification. Ma anche una presentazione di Jessie Shell su TED.com che introduce, provocatoriamente, alcuni concetti. Quindi decido di approfondire l'argomento aprendo un blog tuttora attivo, gameifications.com, e scrivendo un libro sulla smaterializzazione del gaming e sulle prime ipotesi di gamification. Da qui la cosa ha riscosso molto interesse e ho iniziato a fare conferenze, incontri e, ovviamente, a lavorare con diversi clienti, anche molto tradizionali, che non avevano mai avuto alcun contatto con il mondo dei videogiochi.
Ecco Fabio, qui ti fermo perché sono veramente curioso: ma cosa spinge un'azienda tradizionale, italiana, a contattare un esperto di gamification?
La domanda che puntualmente mi rivolgono i responsabili delle aziende che incontro è: perché i videogiochi sono così coinvolgenti rispetto ad altre esperienze? Cosa spinge i giocatori a investire decine, se non centinaia di ore, in un'attività del genere? È chiaro che le aziende iniziano a capire che nel game design ci sono dei principi che potrebbero essere molto utili anche in altri ambiti, specificatamente nel design di esperienze che sono rimaste uguali per molto tempo.
E come reagisce il mercato? Non dirmi che sei l'unico a offrire un servizio del genere alle aziende...
Assolutamente no. Se guardi i cataloghi delle agenzie di comunicazione noterai che molte offrono consulenza anche sulla gamification; peccato però che la stragrande maggioranza di queste agenzie non dispongano di professionalità formate nel gaming e che quindi, alla fine, s'improvvisino utilizzando competenze di marketing o web marketing, niente di più. Finiscono per implementare le solite quattro classiche meccaniche che conosciamo tutti: punti, badge, livelli e ricompense. Ma la gamification è molto più di questo e infatti si stima che l'80% dei progetti attuali stia fallendo proprio per problemi di cattivo design.
Invece cosa serve esattamente a un consulente di gamification?
In primo luogo una forte esperienza nel gaming, sia come giocatore che come professionista; conoscere come funzionano i videogiochi, quali leve utilizzano per "ingaggiare" il giocatore e tenerlo incollato al monitor è fondamentale. Per far questo è importante avere anche basi di psicologia... infatti per me la gamification è fondamentalmente un crocevia tra game design, psicologia e scienze comportamentali.
Badge, livelli, punti: dicevi che c'è molto di più...
Certo, aspetta un secondo (Fabio estrae dallo zaino un nutrito mazzo di carte, e quando penso che voglia intavolare una briscola, mi corregge n.d.r.): queste sono 100 carte sulle quali sono riportate le varie meccaniche di gioco con le loro caratteristiche. Altro che badge, livelli e punti...
Quello che faccio io è applicare queste meccaniche alle necessità delle situazioni concrete seguendo un framework preciso; l'azienda mi comunica gli obiettivi (ad esempio guidare utenti a certe azioni, aumentare il tempo medio di permanenza sui siti, migliorare la risposta alle promozioni) e io costruisco un percorso che fa proprio uso di queste meccaniche di gioco. Questo anche in settori molto lontani dal gaming...
Ecco, chi sono i tuoi clienti principalmente?
Realtà di tutti i tipi. Ho lavorato con aziende che fanno e-learning ma anche con Technogym, Neutro Roberts, Sky, banche...
No aspetta, banche? Mi stai dicendo che i clienti delle banche seguiranno percorsi gamificati?
Molto di più: anche i dipendenti lo faranno! (A questo punto, di fronte al mio stupore inebetito, Fabio mi mostra un progetto che sta seguendo per una nota banca italiana... ndR) In questo progetto ho verificato che la banca in questione spendeva cifre importanti per la formazione e la motivazione dei propri dipendenti, e lo faceva per procedure a dir poco tradizionali. Le classiche lezioni frontali, ad esempio, in cui tutti gli utenti devono essere radunati nello stesso posto: immagina i costi e la scomodità...
Quindi siamo stati coinvolti per rendere più coinvolgente e anche divertente il lavoro di tutti i giorni (il progetto prevede vere e proprie progressioni di livello con avatar e classifiche in cui si può verificare la propria posizione rispetto ai colleghi, progress-bar sugli obiettivi con comparazione con le performance altrui. Ci sono missioni con obiettivi diversificati (x telefonate + y contratti chiusi ad esempio) e con la possibilità di scegliere fra diverse alternative. Ma anche la cooperazione viene incentivata come ad esempio persone che si devono associare con un partner per condividere punti; questo crea pressione sociale, esattamente come in un MMO come può essere World of Warcraft. ndR).
E le ricompense? Denaro?
Non proprio, ci sono molte altre possibilità. Il parcheggio più vicino all'ufficio, magari personalizzato, oppure un regalo nell'anniversario dell'assunzione: una ricompensa in un momento emotivamente forte per l'utente tende a essere molto efficace... Fabio, ma c'è veramente una SCELTA per l'utente nella gamification o è semplicemente una "carota motivazionale" molto evoluta? Dopo tutto Sid Meier pone al centro di un buon game design proprio il concetto di 'scelta interessante'...
Questo è un aspetto su cui insisto molto con le aziende: per essere efficace un game design deve obbligatoriamente mettere al centro dell'esperienza il giocatore, offrendogli continuamente scelte interessanti. Tuttavia, esattamente come si fa nei videogiochi, la libertà che andiamo a offrire è più una scelta di percorso con alternative delimitate. Libertà sì, ma in una cornice controllabile, come è ovvio che sia.
Ma per entrare più nello specifico, disegnare un'esperienza che sfrutti i dettami della gamification comporta tre elementi base:
- Obiettivi frammentati e temporizzati. Quindi, invece che impostare un obiettivo mensile, ad esempio, frazionarlo in quattro mini-missioni settimanali.
- Diversificare. Ogni settimana l'obiettivo non è solo quello creato al punto 1 ma è arricchito e diversificato con altri compiti.
Proporzione tra capacità e livello di difficoltà. Non è solo una questione di curva di apprendimento approcciabile ma anche di offrire contenuti e opportunità man mano che l'utente diventa esperto; se ne guadagna in semplicità ma anche in ingaggio dell'utente e motivazione.
Se ci pensi molte delle esperienze che ci vengono offerte oggi sono zeppe di opzioni e modalità e non prendono in considerazione questo semplice principio di design.
Detto così sembra veramente facile ma esiste una formula giusta per qualsiasi situazione?
Al contrario, come nei videogiochi ogni giocatore è diverso e per ognuno va pensata un'esperienza soddisfacente. È come nella classificazione dei videogiocatori che ha fatto Richard Bartle (ricercatore britannico focalizzato sulle esperienze di gioco dei primi M.U.D., multi user dungeon - n.d.r.). Lui ha immaginato quattro tipo di giocatori: Killer (orientati alla vittoria e all'umiliazione degli avversari), Socializer (motivati solo dalla socializzazione con gli altri), Achievers (rigorosi "completisti" con un occhio fisso ai dati delle performance) ed Explorers (interessati più alla variazione dell'esperienza e alla scoperta che ad altro).
Per ognuno di questi tipi, che ovviamente non esauriscono il panorama, va pensato un percorso: pensa a quello che ti interessa come giocatore agli inizi e pensa, invece, cosa ti interessa come veterano che ha già visto tutto. Cambia l'intera esperienza, interessi, obiettivi e, quindi, motivazioni; è ovvio che per ognuno di loro debba esserci qualcosa di diverso. Questo è un buon esempio di come un principio di game design si trasla nella gamification.
Cosa ti piace di più del panorama attuale del settore dei videogiochi? Quali sono le iniziative più interessanti per te e il tuo lavoro?
Ti dico la verità, sono tre anni che non acquisto un videogioco! Tuttavia ho speso un patrimonio per farmi costruire due cabinati e attrezzarli in modo da avere a disposizione un po' tutto lo scibile videoludico, dalle prime console Atari alla Playstation 2. Gli anni '70 e '80 sono decisamente i più fertili in quanto a meccaniche di gameplay. Per il resto, i giochi "social" sono molto istruttivi in quanto a pratiche virali e motivazionali: il fatto di dover accedere ogni tot tempo per ottenere certe ricompense, o di dover fare evangelizzazione con i propri amici per raggiungere certi obiettivi, sono due esempi di meccaniche potenzialmente interessanti per la gamification.
Sui titoli moderni mi piace molto la narrativa utilizzata come ricompensa, ovvero sbloccare pezzi della trama attraverso il raggiungimento di certi obiettivi. Anche questo è molto importante per la gamification, perché è un sistema di ricompense tutto interno all'esperienza di gioco, senza bisogno di utilizzare, come facevano una volta le aziende, premi fisici (con i programmi-fedeltà ad esempio).
Anche la scena indie è molto interessante. Ho osservato con interesse titoli come Her Story, Gone Home, The Vanishing of Ethan Carter e This War of mine.
Ed eticamente? Possiamo definire la gamification una pratica eticamente corretta? Dopotutto stiamo sfruttando percorsi preferenziali del cervello umano per aumentare produttività e/o profitti.
La mia risposta qui è sempre la stessa: uno strumento può sempre essere utilizzato per fare del bene o del male, ma in sé è neutro. La gamification non è né il primo né l'ultimo strumento a utilizzare la psicologia comportamentale, basta pensare ai percorsi dei centri commerciali oppure a come si gioca sulla paura.
Groupon è un esempio interessante: si stimola nell'utente la paura di perdere un'offerta incredibile (e irripetibile), tanto più che poi è risaputo che il profitto di Groupon proviene proprio da quei coupon acquistati ma non utilizzati. Lo stesso avviene con le offerte di Steam! È l'economia dell'irrazionalità! In questo panorama la gamification mi sembra una pratica decisamente innocua.
Fabio, dacci qualche cifra sulla Gamification: è un fenomeno in crescita?
Assolutamente sì. Se nel 2010 il giro d'affari era pressoché nullo, oggi Markets & Markets stima che nel 2016 il fatturato totale si attesti intorno ai 2,8 miliardi di dollari che diventeranno, secondo Gartner, 5,5 già nel 2018. Inoltre, entro la fine del 2015 si stima che circa il 50% delle top 2000 corporation si doteranno di almeno un processo gamificato.
Personalmente penso che la gamification sarà talmente diffusa che il termine non si utilizzerà più. I suoi principi rientreranno semplicemente nelle buone pratiche di design delle esperienze; che è quanto di meglio possa capitare a un fenomeno in quanto ad adozione da parte del pubblico.
Cosa consigli a chi voglia intraprendere un percorso simile al tuo?
Gamification Designer, questo è il nome giusto. Come detto l'esperienza nel gaming è fondamentale, così come un'infarinatura psicologica e comportamentista. Poi nello specifico iniziano ad apparire corsi come quello di Coursera di Kevin Werbach (che rilascia certificato tra l'altro). Io poi coordino un master semestrale allo IED (Milano) che si chiama "Gamification and Engagement Design"; lo stesso IED, tra l'altro, ha un altro corso di questo tipo a Barcellona. Come autoformazione, il numero di testi inizia a essere importante, intorno al centinaio; di questi ve ne consiglio un paio: Game Based Marketing di G.Zichermann e J. Linder Influence di R.B. Cialdini. Oltre a questo, se vi interessa, date un'occhiata al mio blog in cui trovate molte case history o quello di Gabe Zichermann.
Che dire Fabio, sei stato super esaustivo e illuminante, grazie!