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Giocare per viaggiare con la mente

E andare lontano. Lontano.

Alla fine ci sono tornato, a Night City.

La ragione? L’altro giorno ero in autostrada e, come credo capiti a tutti mentre si guida, un po’ stavo attento alla strada e un po’ pensavo ad altro. La mia mente ultimamente vaga sempre più spesso altrove e la spiegazione che mi do (che non è necessariamente quella giusta) è che rispetto a un tempo non viaggio più.

L’avvento del Covid ha dapprima bloccato a terra tutti i voli, inclusi quelli della stampa; successivamente ha insegnato ai publisher che non è poi così indispensabile prendere un giornalista e pagare aereo, vitto e alloggio per portarlo a vedere un videogame dall’altra parte del mondo. Basta una sessione di Parsec (l’equivalente di Google Stadia, per capirci), preceduta da un briefing degli sviluppatori su Discord.

Ed ecco che una persona abituata per quasi trent’anni a prendere uno o due aerei al mese, si trova di colpo a non muoversi più da casa se non durante le feste comandate. Che è poi quello che accade a tutti quanti, motivo per cui accetto con filosofia questo cambio di paradigma. Nulla dura per sempre e, per quanto mi riguarda, ho visto talmente tanti luoghi nel mondo che lamentarmi sarebbe irrispettoso verso chiunque abbia un normale lavoro.

Ma il mio subconscio no, lui i discorsi razionali non li comprende. Per cui col corpo bloccato da ormai due anni a Milano e dintorni, la mia mente viaggia sempre più spesso. Quel che mi stupisce è che non va solo nei luoghi in cui sono stato realmente, di persona, ma anche in quelli immaginari che ho visitato virtualmente nei videogiochi (accade anche a voi? E se sì, dove volate più spesso con la fantasia?).

La serie televisiva Bosch, oltre che un bel poliziesco, è una splendida cartolina di Los Angeles. Guardandola mi è facile abbandonarmi ai ricordi.

Per cui da una puntata di Bosch Legacy l’immaginazione mi ha portato a Los Angeles, luogo in cui sono stato decine di volte e che col tempo ho imparato ad apprezzare, e quindi a Night City. Mi spiaceva aver lasciato a metà le avventure di V, non aver visitato da cima a fondo una delle città più belle mai proposte in un videogioco, non aver visto come andava a finire la storia.

Parimenti m’interessava in generale vedere come s’è evoluto Cyberpunk 2077 dopo decine di patch, e in particolare come gira su PlayStation 5 grazie alla patch next-gen pubblicata qualche mese fa. Ebbene, devo dire che mi starei godendo particolarmente questa mia seconda run… non fosse che il gioco crasha in media due volte al giorno, cosa che più che irritarmi mi lascia costernato.

Ma non è per (s)parlare di CD Projket che ho iniziato a scrivere queste righe, quanto per dire che non è solamente Night City ad aver fatto capolino nel mio immaginario: periodicamente mi trovo a passeggiare per la Torre di Destiny (la prima, il primo), e poi a correre giù per i suoi cunicoli nel disperato tentativo di prendere il catalizzatore per il Pandemia Perfezionata (cosa che non sono mai riuscito a fare). Altre volte sono a bordo dell’Astrocorazzata, altre ancora mi aggiro tra le navi del Cosmodromo. Tutti segnali che il mio subconscio vuole rientrare nei mondi di Bungie.

Credete sia finita qui? Nient’affatto: meno spesso, ma sono ormai passati diciotto anni, ho dei flashback della Tanaris di World of Warcraft vanilla, con quella musica arabeggiante che sento ancora risuonare nelle mie orecchie. Rivivo i boschi fatati di Ashenvale e provo ancora lo stupore della prima volta quando mi (ri)affaccio con la memoria su Thousand Needles dal grande ascensore di Thunderbluff.

World of Warcraft ha marchiato il mio immaginario in modo indelebile, al punto che a ripensarci ho quasi l'illusione di essere stato realmente nei suoi mondi.

E poi recentemente mi trovo spesso a rivivere le atmosfere di Ghostwire Tokyo, gioco che pur accontentandosi di essere un doppia A mi ha dapprima stregato, per poi abbandonandomi sul più bello con l’assenza di un New Game +. Ho scritto “rivivere le atmosfere” non a caso, perché quando invece voglio muovermi con la mente per le strade di Tokyo, attingo dai ricordi sia del mio penultimo press tour (prima in California per la Blizzcon, poi in Giappone per le finali di esport di Rainbox 6 Siege), sia della Kamurocho che ho percorso in lungo e in largo nei vari Yakuza e Judgement.

E sono proprio i videogiochi di SEGA ad avermi regalato una delle esperienze più estranianti della mia vita. Come ho già scritto in passato (mi perdoni chi lo leggerà per la seconda volta), mi sono trovato per puro caso a passeggiare per le strade di Shinjuku (Ubisoft mi aveva preso l’hotel in zona). Sapevo che Kamurocho era ispirato a un quartiere realmente esistente di Tokyo ma non ricordavo quale, né avevo capito che fosse la trasposizione 1:1 della realtà.

Per cui a un certo punto giro un angolo e mi trovo a vivere una sensazione di déjà-vu. “Sembra proprio uno scorcio di Yakuza”, ho pensato. Poi mi sono guardato attorno e ho visto che era esattamente quel luogo che credevo esistere solo virtualmente. Alla fine era tutto lì, dove sapevo che era, al punto che ho messo via Google Maps e ho iniziato a camminare sapendo già cosa avrei trovato dietro l’angolo. Trovarsi in real life nelle ambientazioni di un videogioco è un’esperienza di tale suggestione (per chi è un gamer, ovviamente) che, ahimé, temo di non riuscire a trasmetterla con le sole parole.

Imparare a conoscere Kamurocho attraverso la serie Yakuza e trovarsi poi a camminare per le sue strade, è stata una delle esperienze più suggestive della mia vita.

Quando ne scrissi all’epoca parlai non di “realtà virtuale” ma “di virtualità reale”, quasi a descrivere il processo esperienziale inverso cui fui inaspettatamente soggetto. Il che, in questo preciso articolo, mi porta ad avvicinarmi alla mia tesi, perché per quanto Yakuza ricrei alla perfezione Shinjuku, i suoni, gli odori e le vibrazioni della realtà sono ancora irraggiungibili.

“Bella scoperta”, risponderà qualcuno di voi, e avrà ragione. Ma il punto è che vorrei respirare l’aria pungente dei boschi di Assassin’s Creed Valhalla, sentire sulla pelle il calore del sole mentre vado a caccia di dinosauri in Horizon Forbidden West. Vorrei rinfrescarmi sorseggiando un drink nel saloon di Red Dead Redemption 2 o ancora sentire i miei capelli mossi dal vento che soffia sulle più alte guglie di Leyndell, in Elden Ring. Ma, purtroppo, non posso.

Ed è questo uno dei più grossi limiti del nostro medium, ossia il poter gratificare solo due sensi e non tutti gli altri; e anche l'ostinarsi a spingere unicamente sulla grafica (prima il Full HD, oggi il 4K e domani l’8K) quando in realtà quella che c’è è più che sufficiente a triggerare la nostra immedesimazione. Perché è dai cabinati degli anni ’80 che abbiamo capito che quello manca all’occhio lo mette la nostra immaginazione, tant’è che i giochi rivisitati oggi con l’Unreal Engine 5 mi lasciano sempre un po’ tiepido.

"Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi". E grazie ai videogiochi, chissà quante ne vedrò ancora.

Ma queste sono insoddisfazioni momentanee, temporanee. Oggi il mio è un sogno impossibile ma un domani, chissà… Mi ricordo ancora quando, guardando il cabinato di Space Invaders colorato con delle strisce di plastica sullo schermo (ai tempi i coin-op erano in bianco e nero), mi trovai a immaginare come sarebbe stato un videogame in tre dimensioni. Poi Atari se ne uscì con Battlezone e mi sembrò che il futuro fosse a portata di mano. E vogliamo parlare della realtà virtuale, vista per la prima volta al cinema ne Il Tagliaerbe? Ora l’abbiamo in casa, per cui chissà che il futuro non ci stupisca ancora.

Fino ad allora proverò a comportarmi come ho fatto fino ad oggi: viaggiare, scoprire posti nuovi, accumulare ricordi, sensazioni. Vere o virtuali che siano è irrilevante, basta che ci siano. E chissà quanti altri mondi s’imprimeranno nel mio immaginario e in quanti altri posti, un domani, la mia mente viaggerà quando io non potrò più farlo.

“Seduto con le mani in mano

Sopra una panchina fredda del metrò

Sei lì che aspetti quello delle sette e trenta

Chiuso dentro al tuo paltò”.

Avatar di Stefano Silvestri
Stefano Silvestri: Il suo passato è costellato di tutto ciò che è stato giocabile negli ultimi 40 anni. Dal ’95 a oggi riesce a fare della sua passione un mestiere, non senza una grande ostinazione e un pizzico di incoscienza.

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