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Giochi sporchi - editoriale

L'industria dei videogiochi sta forzando la mano?

Sfatiamo subito un mito: i "bei tempi", almeno nell'industria dei videogiochi, non sono mai esistiti. Non abbiamo mai vissuto in un magico mondo fatto solo di creatività e a zero tasso di business, con programmatori altruisti che facevano il loro lavoro per la gloria; i giochi non sono mai cresciuti sugli alberi, le console non hanno mai profumato di cioccolata, eccetera eccetera.

Quella dei videogiochi, a cominciare da Pong in poi, è sempre stata un'industria guidata da aziende che volevano essenzialmente generare profitti, come ogni altra azienda del mondo, e il costo dei videogiochi è sempre stato quello di un bene relativamente di lusso (se guardiamo a quanto costavano console come Intellivision e Atari 2600, aggiornando i prezzi all'inflazione di oggi, ce ne rendiamo subito conto). Soprattutto: i giochi brutti, i cloni tutti uguali, le serie inutili, sono sempre esistite: basta pensare ai mille picchiaduro o platform che affollavano le librerie di SNES e Mega Drive.

Insomma, l'industria dei videogiochi non è mai stata perfetta. Ma venendo al punto di questo editoriale, non è mai stata nemmeno brutta e scorretta come lo è oggi. Intendiamoci: i bei giochi escono ancora (grazie al cielo) e affrontarli non è meno emozionante di prima, ma qui stiamo parlando di qualcosa di più profondo: delle dinamiche che si trovano alla base del nostro settore di intrattenimento, e delle reazioni che il pubblico, nonché una parte dei media, cominciano a mostrare.

Il recente caso di Dungeon Keeper, che ovunque sta ricevendo votazioni bassissime (addirittura 1/10 dai nostri cugini di Eurogamer.net!) e pesanti critiche per le sue tattiche di monetizzazione troppo aggressive e giudicate irrispettose, è la punta di un iceberg che va formandosi ormai da diversi anni e che a mio giudizio rischia di rivelarsi molto pericoloso.

Il nuovo Dungeon Keeper ha, se non altro, il merito di aver sollevato in modo plateale la questione dei problemi che affliggono il modello 'free to play'.

Sappiamo tutti che l'economia moderna, sempre più competitiva, impone di trovare soluzioni per massimizzare i guadagni, ma la domanda da porsi è: nel tentativo di sfruttare in modo sempre più intensivo i loro titoli, i publisher e l'industria in generale stanno forzando troppo la mano? Stanno rischiando di alterare in modo irreparabile il concetto stesso di "videogioco" e di compromettere il sacro legame fiduciario che deve esistere tra un'industria e il suo pubblico? Cerchiamo di analizzare quello che sta accadendo negli ultimi anni e di darci una risposta.

"L'industria dei videogiochi non è mai stata perfetta, ma non è mai stata nemmeno brutta e scorretta come lo è oggi"

Innanzi tutto, quest'ultima eventualità da me prospettata è tutto fuorché fantasiosa e remota: si tratta di una cosa che è già successa, per esempio, al mondo del cinema. Alla crisi dei botteghini, Hollywood ha risposto con prezzi maggiorati, una valanga di remake poco ispirati e poco graditi dal pubblico, nuove e sempre più aggressive strategie di monetizzazione "collaterale" (come la mezz'ora di pubblicità che ormai bisogna sorbirsi in sala prima dell'inizio del film), finendo solo per allontanare ulteriori fette di pubblico e aggravare la sua situazione complessiva.

Nel mondo dei videogiochi non si nota ancora una flessione significativa dal punto dei vista dei numeri (anzi, la scorsa generazione è stata complessivamente la più venduta di sempre, e i grandi blockbuster hanno più successo che mai), ma si comincia a rilevare uno scontento che sempre di più serpeggia tra gli appassionati, i quali più di una volta si sono dimostrati infastiditi (se non apertamente ostili) nei confronti di numerosi produttori e delle loro iniziative.

Tra queste iniziative spesso contestate, una delle prime ad emergere nel corso della passata generazione è stata sicuramente quella dei DLC a pagamento. Sono numerosi i casi di contenuti scaricabili che, più che rappresentare vere e proprie aggiunte ad un gioco acquistato a prezzo pieno, risultano essere "completamenti" di un prodotto rilasciato volutamente non finito, oppure offerte dal valore assolutamente sproporzionato al prezzo richiesto.

La famigerata horse armor di Oblivion è uno dei primi esempi di DLC-scandalo: per il 'pacchetto' Bethesda chiedeva $2.50, ma di fronte alla reazione furiosa dei fan ammise l'errore.

Probabilmente molti di voi ricorderanno il primo "scandalo" legato ai DLC: quella singola armatura da cavallo di Oblivion che secondo Bethesda valeva addirittura $2.50. Ci trovavamo ancora agli albori della generazione e si era dunque in una fase esplorativa di questa nuova possibilità consentita dagli store digitali, ma dobbiamo dire che da lì in poi la situazione dei contenuti aggiuntivi non si è mossa soltanto in una direzione di miglioramento.

"Dungeon Keeper è la punta di un iceberg che va formandosi da anni e che rischia di rivelarsi molto pericoloso"

Parlando di tempi più recenti, ad esempio, Capcom ha una lunga storia di DLC venduti come download a pagamento ma in realtà già presenti sul disco acquistato nei negozi. Chiederci altri soldi per lasciarci sbloccare un qualcosa che si trova già sul disco che abbiamo comprato è una pratica quantomeno borderline dal punto di vista etico, e giustamente non ha mancato di sollevare le sue perplessità. A maggior ragione quando, come nel caso di Dragon's Dogma, la notifica che avvisava della disponibilità del "nuovo contenuto" appariva al day one, subito dopo aver inserito il disco per la prima volta nella console.

Un'altra pratica che molto ha fatto discutere nel corso della passata generazione è quella dei famigerati online pass, inventati da EA e nel corso del tempo adottati anche da molti altri produttori. Il loro scopo era semplice: far sì che, comprando un gioco usato, non si potesse accedere alla sua parte online senza pagare una certa somma al produttore. Tra gli altri effetti collaterali c'era anche il fatto che tale titolo non si potesse, ad esempio, prestare ad un amico che volesse giocarlo online. Un'altra soluzione a tutto vantaggio dei produttori e a discapito della libertà degli utenti, che istantaneamente vedevano diminuire il valore collegato al loro acquisto da 60-70 euro, oltre che la loro possibilità di attingere al mercato dell'usato.

Entrambe queste pratiche, dopo le aspre critiche degli appassionati e probabilmente anche qualche altra valutazione meno trasparente da parte dei publisher, sono state accantonate da Capcom ed Electronic Arts. Ma l'elenco delle iniziative di monetizzazione definibili come "anti-consumer", o comunque di disturbo ad un mercato sano ed equilibrato, è ancora lungo. Si potrebbe, ad esempio, parlare della possibilità (pensata nuovamente da EA) di pagare soldi reali per sbloccare oggetti in-game che altrimenti richiederebbero impegno, tempo ed abilità per essere ottenuti (è il caso di Battlefield 3 e dei suoi "kit scorciatoia").

È innegabile che dietro buona parte delle iniziative più contestate degli ultimi anni ci sia stata EA. Il che potrebbe spiegare quello scomodo primato di compagnia più odiata d'America.

È sano consentire ai giocatori di un titolo online competitivo di pagare per usare quello che un tempo avremmo definito un "cheat"? Oppure questo produce uno sbilanciamento delle dinamiche di gioco, oltre a far infuriare i giocatori veterani che hanno sbloccato tutto con sacrificio solo per trovarsi poi i server inondati di "newbie" col portafogli gonfio e un arsenale completo comprato a colpi di carta di credito?

"Sono numerosi i casi di contenuti scaricabili che risultano 'completamenti' di un prodotto uscito non finito "

Per non parlare di un altro fenomeno che recentemente sta prendendo piede e generando disastri: curiosamente, ci troviamo ancora una volta a parlare di EA, e stavolta delle sue politiche "always online", che sono ad esempio all'origine della vera e propria debacle dell'ultimo SimCity, titolo uscito sul mercato praticamente ingiocabile e in grado di far infuriare la comunità dei fan, rischiando di compromettere il nome di uno dei marchi più famosi della nostra industria. Un destino condiviso abbondantemente anche dall'ultimo Battlefield 4, che dopo mesi dalla sua uscita ancora risente di gravissimi problemi di stabilità, che sottolineano come il titolo sia stato lanciato sul mercato in una forma non finita o comunque non testata a dovere nelle sue funzionalità.

Ovviamente non sono solo EA e Capcom le aziende responsabili dell'attuale situazione: al di là del fatto che molti produttori le hanno poi seguite sui passi di queste loro "innovazioni" di mercato, ci sono infatti innumerevoli altri segnali di un'industria che sta indubbiamente forzando troppo il gioco, pensando molto a come massimizzare i propri profitti e poco a come migliorare i propri servizi.

A partire dal moltiplicarsi dei servizi online proprietari, che richiedono iscrizione, monitorano la nostra attività, risucchiano le nostre liste di amici/contatti e a volte si propongono anche come piattaforma d'acquisto esclusiva (Games for Windows Live, Origin, Uplay, eccetera), fino ad arrivare alle innumerevoli colpe dei produttori di hardware, che da sempre ci incastrano in un illogico sistema di blocchi regionali e nelle ultime generazioni hanno effettuato lanci di hardware abbondantemente fallimentari dal punto di vista della qualità e della stabilità: basti pensare all'ormai storico Red Ring of Death, o al più recente caso degli stick PS4 fatti di marzapane.

Il disastroso lancio di Sim City è un ottimo esempio di come politiche di controllo troppo restrittive possano ritorcersi contro chi le mette in atto.

Tutte le iniziative sopra elencate, molte delle quali vanno sicuramente a detrimento dei servizi offerti e della qualità dell'esperienza di gioco complessiva, sono state messe in atto esclusivamente per uno scopo: spremere al massimo il limone e generare maggiori profitti, con la speranza che il pubblico recepisse il tutto con scarsa ostilità e dunque tollerasse. Notare che si tratta di uno stillicidio di piccoli passi, che se osservati da lontano vanno però tutti in una direzione comune: viene in mente il classico esempio della rana che, se lanciata in una pentola d'acqua bollente, ne salterà subito fuori, ma immersa invece in un contenitore che si riscalda pian piano finirà per farsi lessare senza nemmeno accorgersene.

"Il rischio di cancellare il fattore divertimento, in un videogioco pensato anche (o soprattutto) per farci scucire altri soldi dopo l'acquisto iniziale, è concreto"

Il che ci porta a parlare di quello che è probabilmente l'argomento più caldo al momento sul fronte videogiochi: le nuove dinamiche di monetizzazione dei titoli free to play (spesso sagacemente storpiato in fee to pay). Guardati ancora con grande diffidenza dal pubblico dei giocatori hardcore (salvo alcune eccezioni, come quella di League of Legends), questi titoli spopolano però sul mercato delle piattaforme mobile, realizzando cifre da capogiro e creando veri e propri fenomeni di massa, come gli ormai onnipresenti Ruzzle o Candy Crush Saga.

La loro strategia di monetizzazione è quasi sempre la stessa: creare una base di gioco gratuita, su cui si sviluppano una serie di gadget in-game o "facilitazioni" di vario genere da acquistare tramite micro-transazioni. L'esempio più classico è quello delle gemme che velocizzano il tempo di generazione di qualche risorsa fondamentale: giocando gratis si devono attendere ore perché la fantomatica barra X si ricarichi e ci consenta di proseguire, ma comprando una scintillante gemma da 50 centesimi si potrà azzerare questo tempo di attesa e continuare subito a giocare.

Inutile dire che, basandosi su una dinamica del genere, è molto complesso trovare il giusto equilibrio tra la sana esperienza di gameplay e la meccanica quasi "estorsiva" ai danni dei giocatori compulsivi. In sostanza, il rischio di trasformare un innocente giochino per smartphone in una slot machine è presente, e non sono pochi i casi di cronaca che hanno visto giovani e meno giovani dilapidare fortune in qualche titolo mobile o browser game.

Ha senso pagare di nuovo per sbloccare cose che già sono sul disco che abbiamo acquistato, o per rimuovere gli ostacoli creati ad arte dagli sviluppatori per farci aprire il portafogli?

Come dicevo poc'anzi, l'ultimo Dungeon Keeper è solo la punta di questo iceberg ed è la parte più visibile (almeno al momento attuale, viste le critiche a reti unificate della stampa) di un problema enorme che ha radici profonde. E l'industria dei videogiochi nel suo complesso comincia sempre più ad assomigliare ad un arrancante Titanic.

"Siamo come la rana che, immersa in un contenitore che si riscalda pian piano, finirà per farsi lessare senza nemmeno accorgersene?"

A giudicare, ad esempio, da questi primi mesi di next-gen, sembra che i produttori (con in testa Microsoft) non disdegnino affatto l'idea di inserire forme di monetizzazione simil-F2P nei loro titoli, che eppure "free" non sono affatto: come definire altrimenti il sistema di token di Forza 5? Lo scopo è sempre quello di massimizzare i profitti ma siamo sicuri che questa direzione, imboccata da un'industria sempre più nel panico, non finirà per rivelarsi controproducente e alla lunga disastrosa?

Il rischio di cancellare il fattore divertimento, in un videogioco pensato anche (o soprattutto) per farci scucire altri soldi dopo l'acquisto iniziale, è concreto. La tentazione di disseminare i titoli di ostacoli sempre più fastidiosi e arbitrari, da poter rimuovere del tutto solo grazie all'impiego del buon vecchio dio denaro, sbilanciando il gameplay e trasformando l'esperienza di gioco in una sorta di corsa ad ostacoli a pagamento, è reale. Ma c'è una potenziale conseguenza imprevista: esiste un modo più rapido per liberarsi di tutte queste "seccature", ed è semplicemente non giocare.

Una soluzione che, se i publisher e l'industria dovessero continuare a calcare la mano così come stanno facendo ora, potrebbe essere considerata da una parte non indifferente del pubblico. In fondo, se nei cinema tentassero di aumentare i profitti inserendo la figura del disturbatore ufficiale, un vicino di posto che parla al cellulare e mangia rumorosamente popcorn ma è pronto ad andarsene "per un piccolo sovrapprezzo" sul biglietto, quanti pagherebbero per rimuovere questa seccatura e quanti smetterebbero semplicemente di andare al cinema? Pagare per avere qualcosa in più è sacrosanto e avviene da sempre, ma lo stesso discorso è valido quando ci troviamo a pagare per non avere qualcosa in meno?

Un tempo le console non profumavano di cioccolata, è vero, ma tornando a casa dal negozio di videogame si poteva inserire il disco o la cartuccia e pensare semplicemente a giocare. Oggi, sempre più spesso, quello che portiamo a casa sul disco appena acquistato a caro prezzo è il negozio, e non vede l'ora di inondarci di fantastiche e irresistibili offerte dalle vetrine del nostro televisore, mentre ci tiene impegnati con quel minimo indispensabile di gameplay che serve a fare da base agli acquisti successivi.

La domanda è: il pubblico dei videogiochi si lascerà cucinare a fuoco lento, dando ragione ai publisher e alle loro politiche di monetizzazione sempre più aggressive, oppure capirà quando è il momento di saltare fuori dalla pentola?