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Hellblade è riuscito a rappresentare bene la malattia mentale, ma i giochi devono essere più comprensibili - editoriale

Il pubblico e la critica devono chiedere di più.

In generale, i videogiochi non sono sicuramente degli strumenti molto efficaci per descrivere la malattia mentale. Ad essere onesti, i giochi sono decisamente pessimi nell'affrontare moltissimi argomenti ma, tra tutti, quello della malattia mentale ha stranamente la prevalenza sugli altri: misuratori di salute mentale, villain psicopatici, dozzine di giochi ambientati in manicomi. Questo probabilmente è il motivo per cui così tante persone non vedevano l'ora di elogiare Hellblade: Senua's Sacrifice per la sua significativa rappresentazione di un argomento così delicato.

E questo non vale solo per critica e fan. Gli sviluppatori stessi considerano Hellblade un risultato memorabile nella lotta al pregiudizio che circonda la salute mentale, pubblicizzandolo soprattutto per il suo argomento centrale. Sembrava inevitabile perciò che le persone avrebbero premiato lo sforzo compiuto: cosa che di fatto è accaduta davvero. Il premio BAFTA ha creato una categoria apposita completamente nuova, il "Game Beyond Entertainment", un nome che puzza di presunzione.

Calma. È vero che trovarsi di fronte ad un argomento delicato come questo, trattato con una tale cura, è confortante, ma tutti sono corsi troppo in fretta a congratularsi con il gioco per la sua correttezza e accuratezza e io non sono sicura che ci si sia presi il giusto tempo per analizzare cosa avesse effettivamente da dire il gioco sulla salute mentale. La rappresentazione della malattia mentale di Hellblade sembra genuina e certamente commovente. Si tratta di un gioco avvincente e, per coloro che soffrono di allucinazioni e depressione, anche di emancipazione, ma la battaglia di Senua attraverso l'ossessionante mondo fantasy di ambientazione norrena non è di facile intuizione per riuscire davvero a comprendere chi vive questi problemi.

Ci sono delle lacune nelle vicende che il gioco esplora. Non vediamo mai come Senua si confronta con delle situazioni sociali e nelle interazioni con gli altri, aspetti che, per molti di coloro che soffrono di malattie mentali, rappresentano alcuni dei maggiori ostacoli da superare. Hellblade continua a rimanere un gioco commovente e nell'isolamento di Senua vedo molto di quella che è la mia sofferenza, ma ho l'impressione che alcuni lo abbiano considerato come una sorta di strumento educativo. Il gioco come una "macchina per l'empatia" è qualcosa che abbiamo già visto diverse volte. L'idea alla base è che se fai giocare qualcuno ad una simulazione di un'esperienza altrui allora capirà cosa significa essere quella persona. Ma questo è un concetto pericoloso. Può far sentire le persone come se potessero avere un qualche tipo di autorità su esperienze che non hanno mai vissuto, rischiando di strumentalizzare i problemi delle persone e trasformarli in una forma di "turismo" per gli altri.

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Lo stesso capo designer di Hellblade, Tameem Antoniades, ha detto che il gioco mirava a "farci vivere nella pelle di qualcun altro, qualcuno che percepisce il mondo in modo molto diverso dalla maggior parte di noi. Capire quello che stanno passando queste persone come nessun tipo di libro riesce a fare". Tutto ciò mi fa innervosire, come se l'unica maniera per entrare in empatia con le persone fosse quella di percorrere qualche miglio virtuale nelle loro scarpe.

Con questo non voglio dire che i videogiochi non dovrebbero affrontare questi argomenti. Assolutamente. È però necessario esercitare più controllo quando vengono realizzati e stare attenti a non lodare qualcosa per il semplice fatto che sia inoffensivo. Questo è il minimo che ci si dovrebbe aspettare nell'affrontare queste tematiche, non il modello da seguire. Spero che Hellblade rappresenti l'inizio di tutta una serie di giochi mainstream che esplorino simili argomenti, ma spero che si sforzino di fare qualcosa di più del riuscire ad essere genuini e sensibili. Voglio che sfidino le persone per spingerle a pensare, non che si trovino di fronte al pensiero fatto e finito.