I film della nostra infanzia - recensione
Certi ricordi non finiscono mai...
Sapevate che i tre Ghostbusters avrebbero dovuto essere Dan Aykroyd, Eddie Murphy e John Belushi? E che sul set di Dirty Dancing, Patrick Swayze e Jennifer Grey non sono mai andati d'accordo per vecchie ruggini risalenti al film Alba rossa? E che Mamma ho perso l'aereo ha "perso" Warner come produttore, perché non voleva sborsare poco più di un milione di dollari oltre al risicato budget? E che Bruce Willis era stato tolto dalle locandine di Die Hard perché durante i trailer le platee ridevano di lui ed era stato rimesso a fianco del grattacielo solo mesi dopo, quando ormai il successo era assicurato?
Queste e altre informazioni ancora più interessanti e divertenti, ci vengono raccontate nella serie Netflix I film della nostra infanzia, emanazione di I giocattoli della nostra infanzia, serie che è arrivata ben alla terza stagione, dopo aver raccontato l'origine di giocattoli dedicati all'universo Star Wars, Barbie, He-Man e G.I. Joe e via discorrendo nel tempo e nella memoria.
Si dirà che siamo a livello degli extra dei DVD o di Wikipedia ma non è così, perché qui si raccontano spiritosamente cose note e cose inedite, che nel loro insieme mostrano tutta l'enorme quantità di problemi che si devono affrontare quando si ha fra le mani una bella storia che si vorrebbe far diventare film, per il quale però c'è bisogno di qualche milioncino di dollari (ma davvero pochi, rapportati a oggi), per far girare una macchina assai complessa.
La serie TV, composta per ora di quattro episodi, racconta cosa c'è stato dietro la genesi di film come Dirty Dancing (1987), Mamma ho perso l'aereo (1990), Ghostbusters (1984), Die Hard (1988), titoli entrati per diversi motivi nel cuore degli spettatori, rivisti infinite volte in homevideo, nei ciclici passaggi sulle televisioni di un tempo e oggi rintracciabili su vari servizi di streaming.
Sono quattro celeberrimi classici senza tempo, che ci hanno fatto ridere, commuovere, ballare, film di tale successo commerciale che riesce difficile immaginare da quali difficoltà si siano districati per essere realizzati.
Dirty Dancing, scritto e prodotto da due donne, grazie a una virtuosa trafila di personaggi convinti delle sue potenzialità, era approdato a una casa di produzione che aveva fatto i soldi con il porno in VHS e voleva spiccare il volo nel cinema "vero". Ma anche la scelta dei protagonisti era stata lunga e faticosa, soprattutto per Patrick Swayze che, pur provetto ballerino, non voleva fare film in cui si danzasse, impegnato a costruirsi una carriera solo da attore.
Oltre ai problemi di incompatibilità con la sua collega, ne aveva anche di fisici, ad un ginocchio, conseguenza delle sue passate attività sportive. Causa lo scarsissimo budget non si poteva girare alle Catskills e questo aveva costretto la produzione a una faticosa ricerca di un luogo meno di moda e meno costoso. E perfino le canzoni tardarono ad arrivare, costringendo il regista Ardolino a girare le scene col semplice metronomo.
Mamma ho perso l'aereo vedeva alla scrittura un nome allora al top, John Hughes, con un regista che da lì avrebbe spiccato il volo come Chris Columbus. Ma anche in questo caso le traversie finanziarie furono molte, portando la produzione più volte sull'orlo della chiusura, a causa dei ripensamenti di Warner, cui per una fortunata coincidenza era subentrata la Fox.
Quanto ai due ladri, i personaggi più spassosi del film, si era scelto di ispirarsi ai cartoni animati per le loro incredibili disavventure, con gli storyboard che sembravano disegni di Looney Tunes. Alla fine la discesa in campo di John Williams, che aveva accettato di comporre la colonna sonora, fu per la produzione una vera ventata di rispettabilità, che tutta la troupe accolse con un sospiro di sollievo.
Il mitico Ghostbusters, vera perenne fonte di guadagni per chi ha partecipato alla sua realizzazione (come tutti gli altri film di questo gruppetto), era un progetto minato (tanto per cambiare) dalla ristrettezza di fondi e di tempo per girarlo, con un cast cambiato più volte che vedeva i massimi divi del Saturday Night Live di allora, fra cui un Bill Murray anche lui un "fantasma" fino al primo minuto del primo giorno di riprese, ma capace poi d'improvvisazioni passate alla storia.
Anche il titolo non c'era, perché il nome Ghostbusters apparteneva a un'altra casa di produzione e così si era cominciato a girare sempre con due nomi, nelle scritte e nei dialoghi, Ghostbusters e Ghostbreakers, nel caso fossero fallite le trattative per rilevare il marchio. Inoltre c'era un "rischio Coca", e non quella che si potrebbe pensare visto l'allegro ambiente di quel periodo, ma perché la Coca Cola aveva nel progetto interessi contrastanti.
Per la produzione di Die Hard l'ostacolo principale era stato la scelta del protagonista, che non poteva essere quel Frank Sinatra, interprete originale del romanzo di Roderick Thorp, da cui era stato tratto il film Inchiesta pericolosa (The Detective) e di cui s'intendeva fare un sequel. Ma fra un libro e l'altro erano passati dieci anni, troppi per Old Blue Eyes.
La scelta di Bruce Willis era stata sofferta, attore allora reduce dalla serie brillante Moonlighting e da un paio di film di scarso successo, considerato però inadatto a interpretare il personaggio coraggioso ma "pappamolle" (l'aggettivo non è nostro), troppo abituato a fare lo "smartass" secondo la produzione. Entrerà nella storia con il suo "yippee ki yay motherfucker", ridisegnando le regole dei film d'azione definiti " kidult".
Oltre a tante piccole informazioni sulla lavorazione, la serie ci mostra come anche personaggi celeberrimi affrontino infinite difficoltà per convincere chi tiene i famosi cordoni della borsa a farli lavorare, e nei casting attori anche famosi sono costretti a compromessi, sottoposti a frustrazioni, perché oltre a dimostrare di poter interpretare un certo ruolo, devono riuscire a "piacere" a una quantità impressionante di personaggi, ciascuno dei quali ha le sue fissazioni diverse (e non parliamo mai di "molestie").
Tutti quelli che hanno partecipato alla realizzazione di questi film, sono poi rimasti sorpresi, travolti dall'inatteso successo che avrà fatto mangiare le mani a chi li aveva respinti (pensiamo sempre come a si sarà sentito il dirigente della casa discografica Decca, che nel '62 aveva "rimbalzò" i Beatles).
Intanto nella troupe, fra autori e primi produttori, le illusioni svaniscono dal mattino alla sera per il cambiamento di un dirigente al vertice della casa di produzione, proprio quello che magnanimamente aveva dato cenno di benevolenza, cancellando il progetto così amorosamente fatto crescere.
La serie concede anche il piacere di rivedere i vecchi attori anche in alcuni "fuori scena", e di conoscere personaggi spesso in secondo piano come direttori di fotografia, coreografi, montatori. Tutti dettagli che da qualche anno abbiamo a disposizione, grazie al materiale che le case di distribuzione immettono sui social, comprese le beghe di produzione, le liti con i registi, i cambi di attori, ma che per i film vecchi spesso ignoriamo, in parte o del tutto. Ogni episodio si conclude con un viaggio sulla memory lane, sui luoghi originali dove sono state girate le scene importanti, e un omaggio sempre commovente ai molti nel frattempo deceduti.
Tutto contribuisce a formare un esauriente, nostalgico "making of" di un tempo lontano lontano, quando ancora fare i film di "cassetta" sembrava un'impresa umana, affidata spesso al destino, con tutte le imperfezioni e le imprevedibilità del caso. Il titolo originale della serie è The Movies That Made Us, i film che ci hanno fatto, perché se il grande William Shakespeare diceva che noi siamo della stessa materia di cui sono fatti i sogni, oggi noi sappiamo di essere fatti anche di tanti film.