I nuovi sistemi di monetizzazione stanno distruggendo videogiochi e videogiocatori
Loot-box, gacha, time saver: abbiamo raggiunto il punto di non ritorno?
Anche se quella del netto cambiamento dei sistemi di monetizzazione che sorreggono i videogiochi ci sembra una faccenda recente - e al giorno d'oggi il prezzo di lancio vale poco o niente se confrontato con i ricavi generati da pass battaglia, DLC, skin e loot-box – si tratta in realtà di una dinamica dalle radici molto più antiche di quanto si potrebbe immaginare.
La genesi delle loot-box, ad esempio, risale al 2004, per la precisione alla release giapponese di MapleStory, un MMO side-scroller sviluppato dai coreani di Wizet. In questa versione fu infatti introdotto uno strumento chiamato “GachaPon Ticket” che, venduto al prezzo di 100 yen, consentiva ai giocatori di interagire con macchinette gachapon (esattamente identiche a quelle presenti nel Giappone reale che distribuiscono capsule contenenti premi) e di ottenere un oggetto casuale al momento dell'apertura della capsula.
Quella delle transazioni post-release, allo stesso modo, è una materia che permea ormai da decenni la discussione attorno al medium del videogioco. Il caso più celebre è senza dubbio quello del DLC per The Elder Scrolls IV: Oblivion che assicurava ai giocatori un'armatura per il proprio cavallo al prezzo di $2.50. Questa fu sì la prima skin a pagamento a scatenare una polemica internazionale, ma al tempo stesso si dimostrò uno dei contenuti digitali extra più venduti del settore fino all'alba del 2009.
Se in passato meccaniche di questo genere trovavano il principale sfiatatoio nei confini delle pochissime opere fatte per perdurare nel tempo, e specialmente negli MMORPG, la nascita del modello live-game – ossia del videogioco fatto per generare ricavi nel lungo periodo – assieme alla struttura free-to-play e all'ascesa del mercato mobile, hanno portato a un'evidente esplosione delle meccaniche predatorie, di quelle di game design sottrattivo-peggiorativo, nonché di una nuova forma di assuefazione che è del tutto assimilabile a quella data dal gioco d'azzardo.
Siamo arrivati al punto che oggi non riusciamo quasi ad inquadrare le criticità imposte da meccanismi aggressivi in ragione delle giustificazioni che attribuiamo ai nuovi modelli di business. L'abbiamo visto di recente attraverso il lancio di Diablo Immortal da parte di Blizzard Entertainment, un titolo nel quale c'è un'evidente presenza di sistemi predatori, nonché figlio del design di tipo peggiorativo, al quale però ci si sente di “perdonare” tale natura in ragione del fatto che sia gratuito, che sia un free-to-play destinato principalmente al mercato mobile, che offra tante ore di intrattenimento a costo zero.
Se vi state chiedendo cosa intendiamo quando parliamo di design sottrattivo-peggiorativo, sappiate che intendiamo una formula di game-design nella quale le architetture di gioco vengono castrate artificialmente per creare lo spazio necessario all'inserimento dei sistemi di monetizzazione. In New World di Amazon, ad esempio, il tempo necessario per compiere determinate azioni è stato inizialmente gonfiato in modo tale da creare spazio per i cosiddetti “time-saver”, ossia pacchetti di oggetti o risorse che consentono al giocatore di risparmiare tempo “tedioso” dietro pagamento. I time-saver sono poi stati rimossi a seguito delle lamentele della community e non torneranno fino a 2022 inoltrato, ma si possono ritrovare sulle sponde di diversi titoli simili come ad esempio Fallout 76 di Bethesda.
Altri esempi sono quello di Diablo Immortal, che adotta percentuali di drop-rate microscopiche al fine di spingere il giocatore verso la spesa, oppure quelli dei classici “browser game” ricamati attorno all'attesa come lo storico Ogame, o ancora i "waiting system" del gigantesco Candy Crush Saga, nel quale bisogna spesso attendere per poter proseguire a meno che non si scelga di metter mano al portafogli. È evidente che in tutte queste opere l'esperienza di gioco venga volutamente peggiorata attraverso sistemi di design sottrattivo al fine di rendere non solo appetibili, ma talvolta necessari gli investimenti monetari.
Questa è una caratteristica propria di qualsiasi videogioco ricamato attorno a meccaniche pay-to-win, pay-or-wait e loot-box, che nella sostanza rende praticamente impossibile il fatto che queste si rivelino produzioni qualitativamente soddisfacenti. Non esiste e non può esistere in nessun caso un videogioco che risulterebbe peggiore – o che non potrebbe esistere – se privato delle meccaniche pay-to-win e pay-or-wait, delle loot-box e dei time-savers in generale. Ne consegue che siamo di fronte agli unici casi nell'industria intera in cui un prodotto viene lanciato volutamente in uno stato qualitativo intrinsecamente carente al fine di premiare i soli sistemi di monetizzazione.
È evidente che in questo momento ci stiamo occupando del grande problema qualitativo, che è senza ombra di dubbio quello meno impellente. Eppure è un fatto che l'imposizione dei nuovi modelli di monetizzazione abbia peggiorato l'offerta videoludica a tutti i livelli del mercato. Se ad esempio in un videogioco AAA come Destiny un tempo bisognava completare attività dedicate per ottenere ricompense, oggi esistono ricompense e persino attività destinate solamente a chi acquista pacchetti aggiuntivi o pre-ordini. Allo stesso modo, la maggior parte degli elementi "cosmetici" un tempo erano sottesi all'interazione con meccaniche di gioco proattive e coinvolgenti, come le sfide da completare su Gears of War o su Halo, mentre oggi quelle che erano le ricompense di ieri vengono vendute separatamente o rinchiuse oltre i lucchetti delle loot-box.
Il problema di natura sociale, d'altra parte, è ovviamente quello più pressante. Capita sempre più spesso di leggere notizie che raccontano di giovanissimi che hanno svuotato le carte di credito dei genitori per acquistare elementi in-game, così come di appassionati anche maturi che catturati dal vortice della dipendenza hanno finito per indebitarsi al solo fine di stare al passo dell'ultimo Gacha Game in circolazione.
Spesso si tende a spostare l'ago della responsabilità verso le figure educatrici, verso coloro che hanno permesso che certe situazioni si verificassero a causa dello scarso controllo che esercitano sui propri figli o sulle proprie risorse finanziarie, ma è evidente che il problema diffuso non si possa circoscrivere a questa tesi. Tali videogiochi, infatti, sono studiati e costruiti da schiere di psicologi, visual artist e analisti che testano nei minimi dettagli meccanismi, animazioni e contenuti ricamati appositamente per catturare nella rete di spesa le fasce più fragili, e non solo quella dei giovanissimi.
Ormai le diramazioni delle meccaniche di monetizzazione continuative sono divenute tali e tanto differenti da spingere gli operatori del settore a inquadrarne di corrette e di scorrette, di sostenibili e di pericolose, ma in concreto restano tutte figlie della medesima matrice così come di formule di game-design intrinsecamente di tipo sottrattivo. Inoltre, la completa mancanza di trasparenza in merito a determinati sistemi rende particolarmente difficile l'analisi oggettiva di date meccaniche e della loro interazione con la formula di gioco.
Stiamo parlando ad esempio dei sistemi di matchmaking, che non essendo esplicitati e leggibili non consentono di chiarire se l'atto di investire nel videogioco vada ad influenzare il ventaglio di avversari che ci si trova di fronte. Molti ricercatori - come ad esempio Kourosh Azin nel paper "Come il pay-to-win ci fa perdere: introdurre i minori al gioco d'azzardo tramite le loot-box" - hanno teorizzato che sul piano tecnico il videogioco pay-to-win (ma non solo, anche quelli che offrono ricompense cosmetiche) potrebbe adattare costantemente le meccaniche di accoppiamento e il cosiddetto MMR (matchmaking rating) sulla base delle oscillazioni nella spesa media dell'utente. Cosa accadrebbe in concreto? Appena hai comprato qualcosa vieni posto di fronte a un avversario più debole, in modo da consolidare l'idea di aver compiuto un buon acquisto. Viceversa, se tendi a non spendere sarai accoppiato con sfidanti statisticamente più vincenti.
Anche se in questo caso specifico ci siamo addentrati nelle profondità delle meccaniche e soprattutto in congetture limite delle esperienze orientate al multigiocatore, il modello economico aggressivo è divenuto nel tempo la ragion d'essere di tutte le opere del genere. I maggiori elementi di pericolosità nostri contemporanei risiedono nel meccanismo di "giustificazione" della natura aggressiva che s'innesca alla presenza della formula free-to-play (in fondo è gratis), nella de-responsabilizzazione dei publisher di videogiochi – perché i veri responsabili agli occhi del pubblico finiscono per risultare genitori o educatori – e soprattutto nella realizzazione di prodotti qualitativamente al di sopra delle aspettative (che risultano "migliori" rispetto alla concorrenza). Genshin Impact, ad esempio, è indubbiamente un titolo valido rispetto alla maggioranza delle esperienze gacha, ma resta null'altro che un colorato parco giochi volto a nascondere dietro scivoli e altalene meccaniche di natura intrinsecamente pericolosa, specialmente per le fasce più a rischio.
Spesso si tende a squalificare l'interdipendenza che esiste ad esempio tra meccaniche "gachapon" e il gioco d'azzardo assimilando la comparazione a quelle che sostengono che la droga leggera sia l'anticamera della droga pesante. La verità è che gli oltre 12 paper di ricerca pubblicati al 2022 che trattano direttamente la correlazione tra il rapporto con i moderni sistemi di monetizzazione dei videogiochi e il rapporto problematico con il gioco d'azzardo (Sandqvist, Zendle, Spicer, Drummond, Sidloski e tantissimi altri) hanno sostenuto e dimostrato empiricamente tale correlazione.
La considerazione che stiamo per fare non ha né la valenza né le basi scientifiche dei succitati paper di ricerca, ma è un fatto che nell'ultimo periodo le grandi società di gambling (e soprattutto di slot-machine, come ad esempio l'enorme Stakes) stiano investendo cifre importanti sui creatori di contenuti di Twitch per sponsorizzare i propri servizi. Ebbene, se hanno scelto di spendere milioni di dollari per assoldare esponenti del mondo gaming come lo streamer “xQc” nella filiera del marketing, è plausibile che abbiano individuato una potenziale identità tra il “videogiocatore giovane” e il fruitore delle slot.
Il fatto che la maggior parte dei casi limite di pratiche di monetizzazione predatoria si possano riscontrare nel mercato mobile è un altro elemento meritevole di analisi: si tratta, infatti, di un nuovo mercato costituito da nuovi consumatori, pertanto alieno all'auto-regolamentazione di natura sociale che storicamente caratterizza il videogioco. I videogiocatori, come consumatori, rappresentano un sistema vocale, critico e informato, pertanto è estremamente difficile che un comportamento simile riesca non solo a prendere piede, ma soprattutto a tenere banco nel lungo periodo tra PC e console. Un semplice esempio a sostegno di questa tesi risiede nel “cash-shop” di World of Warcraft, che non gode della medesima profittabilità degli MMO mobile a causa della maggiore importanza che la storica comunità di videogiocatori attribuisce alle ricompense ottenute “normalmente”.
Di recente ha fatto molto discutere la prospettiva emersa dal canale YouTube jtisallbusiness, nella quale il content creator – che orbita attorno all'esperienza F2P mobile – ha tentato di spiegare ai critici perché Diablo Immortal fosse un ottimo titolo. Tralasciando i giudizi di merito, dall'analisi sono emersi concetti preoccupanti come il rovesciamento del rapporto “skill based – luck based” nel quale la formula pay-to-win interviene come unico correttivo, la formazione di un “classismo” videoludico tra giocatori paganti e non spendenti, nonché la menzione di un certo “prurito” che caratterizza l'esperienza dei giocatori pay-to-win, a giustificazione degli oltre $50.000 investiti nel titolo dallo stesso YouTuber.
Questi ultimi concetti aprono anche a una forte critica filosofica dei nuovi modelli di business legati al videogioco, specialmente nei contesti di natura competitiva, che dovrebbero rappresentare una delle rare dimensioni nelle quali gli utenti sono “tutti uguali” e vige la meritocrazia; dimensione che viene meno con l'introduzione di sistemi “luck-based” sottesi al correttivo del pay-to-win. Inutile precisare che il ragionamento popolare si può estendere anche alle avventure in giocatore singolo, che diventano simili a ristoranti in cui per $20 puoi mangiare un trancio di carne cruda, ma devi pagarne altri 20 per averla cotta, altri 15 per averla condita, altri 5 per ricevere il coltello adatto, e via dicendo.
Tralasciando questa interpretazione “popolare” del videogioco, e mettendo da parte le meccaniche più esplicitamente predatorie, non si può fare a meno di considerare come una piccola parte della filosofia aggressiva si stia riflettendo anche nei prodotti più sostenibili. Ad esempio Fortnite, che ha limato i suoi sistemi di monetizzazione fino ad assumere una formula generalmente “accettata”, continua a fare leva su meccanismi di fragilità psicologica come la FOMO (Fear Of Missing Out, la paura di non far parte di qualcosa) per mantenere il suo pubblico attivo e spendente nel lungo periodo attraverso eventi e vendite limitate nel tempo, secondo uno schema che è stato emulato dalla maggior parte dei grandi publisher.
Arrivati a questo punto, è inevitabile constatare come il settore dei videogiochi abbia vissuto il fortissimo bisogno di modificare gli storici sistemi di monetizzazione in ragione degli incrementi nei costi, della saturazione del mercato, della dilatazione dei tempi di sviluppo e dell'incertezza degli investimenti. D’altra parte, è un vero peccato assistere alla costante ricerca di una soluzione al problema economico attraverso meccanismi predatori, tecniche assimilabili al mondo del gioco d'azzardo e pratiche che puntano verso le fragilità del pubblico. Per non parlare, ovviamente, degli NFT e della tecnologia blockchain, elementi che attualmente nel settore sono del tutto privi di una ragion d'essere diversa dalla speculazione finanziaria. Possibile che ci stiamo avvicinando al punto di non ritorno?
Questo mese il consiglio a sostegno dei consumatori della Norvegia ha commissionato un report che ha concluso come i sistemi delle loot-box “abbiano una natura aproffittatoria e predatoria”. Il report, che è stato sostenuto e rinviato alla Commissione Europea da altri 18 paesi dell'unione, parla anche di “necessità di trasparenza degli algoritmi”, della presenza di “trucchi psicologici per far investire più tempo e denaro possibile agli utenti”, di “pratiche di design ingannevoli” e di tanti altri elementi come di snodi chiave che devono diventare al più presto oggetto di attenzione da parte del legislatore. Un'impellenza che, molto probabilmente, ricadrà proprio in capo al legislatore europeo.
Se e quando sarà emessa una regolamentazione adeguata di quello che a conti fatti costituisce ormai da anni un far-west normativo, sarà interessante scoprire come sceglieranno di muoversi i principali attori del mercato. Stando agli ultimi report di Statista, l'incidenza dei numeri dei mercati asiatico e sud-est-asiatico nei guadagni complessivi del settore sarebbe tale da rendere quasi trascurabile l'eventuale perdita dell'intera regione europea.
Ci piace pensare, d'altra parte, che questa potrebbe rivelarsi invece l'occasione giusta per i publisher di videogiochi per trovare strategie di monetizzazione che non rispondano solamente alle esigenze del costo economico ma anche a quelle del costo sociale e del costo etico.