I videogiochi non devono limitarsi a imitare la narrativa cinematografica
Raccontare mondi, vivere storie, ma soprattutto crearle.
Quando Elden Ring ha raggiunto il centro del palcoscenico mediatico, nel turbine dei tantissimi elogi ricevuti dalla critica e dagli oltre 13 milioni di videogiocatori che si sono persi nei confini dell'Interregno hanno iniziato anche a riemergere molte delle critiche storicamente rivolte a FromSoftware e alla sua particolare filosofia creativa.
In molti hanno messo nel mirino l'accessibilità, altri il comparto tecnico - spesso a ragione - ma a noi interessa trattare di coloro che hanno indirizzato l'attacco verso la componente narrativa dell'opera. È evidente, infatti, che sin dal primo contatto con Demon's Souls sia emersa una nutrita fetta di videogiocatori che vede dietro lo stile del racconto di FromSoftware il frutto di una negligenza, come se lo studio non avesse voglia di confrontarsi con una sceneggiatura o una vicenda ben esplicitata che si riveli impattante, dinamica e ricca di colpi di scena.
Ciò che ci preme analizzare oggi, infatti, è proprio la direzione imboccata dalla narrativa videoludica e soprattutto la percezione delle formule adottate dai grandi autori del medium, che nel corso delle ultime generazioni si sono cementificate in una singola direzione: l'emulazione della sceneggiatura cinematografica.
È innegabile che stiamo vivendo un'epoca nella quale il “grande videogioco”, per essere ritenuto tale, deve forzatamente esprimersi attraverso le architetture narrative più tradizionali del settore audiovisivo. The Last of Us, God of War, Red Dead Redemption 2, The Witcher 3 Wild Hunt: questi sono solo alcuni dei vincitori e dei candidati ai premi per il GOTY che, da un decennio a questa parte, hanno preso a modello l'ispirazione cinematografica spartendosi gran parte delle statuette.
Se da una parte gli autori hanno teso a superarsi costantemente nel corso degli anni, mettendo in scena storie che non sono state solo capaci di competere ad armi pari con quelle di Hollywood ma che in certi casi si sono dimostrate effettivamente in grado di metterle in imbarazzo, dall'altra è necessario constatare come i videogiochi possano contare su un potenziale unico e alieno a qualsiasi altro medium, un potenziale che nella maggior parte delle grandi produzioni rimane inespresso.
Elden Ring, così come tutte le opere di FromSoftware, è un esempio più che mai calzante in questo senso. È infatti inesatto affermare che nei videogiochi scritti da Miyazaki la componente narrativa assuma tratti superficiali, oppure addirittura che non sia affatto presente. L'elemento narrativo non solo esiste ma occupa un ruolo centrale nell'economia dei progetti della casa, e il problema risiede unicamente nel fatto che sia una narrativa profondamente diversa dalle formule a cui siamo abituati.
Elden Ring non è e non ha la benché minima intenzione di essere un videogioco che racconta una storia, bensì un titolo che racconta “la Storia” - quella con la S maiuscola - di un mondo fittizio. Ma il nostro giudizio è ormai viziato da un bias che conduce erroneamente a immaginare la componente narrativa unicamente come a un intreccio fatto di dialoghi, di azioni e di rivelazioni, come al classico costrutto complesso composto da un motore ben definito, da un'evoluzione e dall'immancabile conclusione.
I videogiochi, in quanto tali, possono tuttavia contare su caratteristiche in grado di far superare alle architetture narrative tradizionali i loro limiti intrinseci, ad esempio facendo indossare al pubblico le vesti degli storici. Immaginate di essere degli archeologi e di raggiungere una rovina dimenticata: vi guardate attorno, decifrate dei glifi, cercate di comprendere la destinazione degli edifici, individuate reperti che vi raccontino qualche verità, e alla fine – se avete fortuna – avrete ricostruito la storia di quel luogo. Questa è un'esperienza che sarebbe pressoché impossibile da replicare tanto in un film quanto in un romanzo, ed è proprio la missione impossibile portata a termine da un videogioco come Elden Ring.
Ma di Elden Ring si è parlato fin troppo, quindi ci preme analizzare un'altra opera che è stata capace di spezzare le succitate catene, ovvero Outer Wilds di Mobius Digital. Questo piccolo gioiello del mercato indipendente non ha solamente scritto un saggio di narrativa videoludica ma ha anche scardinato una volta e per sempre la discussione imbastita da coloro che ritengono che le meccaniche da videogioco open-world e gli elementi tipici del racconto orizzontale siano inevitabilmente destinati a collidere l'uno con l'altro.
Si parla spesso del concetto di “dissonanza ludo-narrativa” nel contesto dei titoli ambientati nei mondi aperti, perché la voglia di offrire al giocatore tante attività in ambienti sconfinati, magari riservandogli una discreta libertà di scelta e d'azione, finisce spesso per cozzare con quella di raccontare una storia. Il risultato è che spesso accade di trovarsi in situazioni nelle quali tragedie apocalittiche non impediscono al protagonista di dedicarsi a partite di carte o lunghe sessioni di pesca che stridono con le fondamenta narrative delle opere.
Outer Wilds ha adottato l'architettura del loop temporale in un mondo aperto, ricamando l'interezza del gameplay attorno a una semplicissima premessa narrativa: per raggiungere la “soluzione” del grosso enigma che costituisce l'avventura bisogna ricostruire – attraverso il ritrovamento di numerose testimonianze scritte – la storia della specie aliena ormai scomparsa dei Nomai, alzando il sipario su incredibili colpi di scena nonostante la lontananza dalle formule di scrittura tradizionali.
Anche nel caso di Outer Wilds sono state sfruttate le caratteristiche proprie del medium del videogioco per raggiungere risultati straordinari nell'ambito della potenza comunicativa senza dover ricorrere alla classica struttura dell'intreccio cinematografico. La trama di Outer Wilds è capace di sorprendere, di commuovere, di immergere il giocatore in un viaggio fuori dal tempo come solamente un videogioco è in grado di fare.
A ben vedere, questo genere di analisi si può tranquillamente estendere anche alle opere che sì, mettono sul piatto storie più che mai cinematografiche ma che lo fanno ben consapevoli dei punti di forza offerti dalle piattaforme interattive. Un esempio recente di questa fattispecie si può individuare in The Last of Us Part 2, un progetto che sarebbe oltremodo difficile da tradurre secondo una semantica differente da quella del videogioco.
La potenza della scrittura di The Last of Us Part 2 risiede infatti nella possibilità offerta all'utente di abitare in prima persona la mente della coppia di protagoniste, che porta a vivere di prima mano ciascun dramma che dipinge la tela della storia di Ellie e Abby. Se The Last of Us Part 2 fosse nato come un film non avrebbe assolutamente potuto raggiungere il medesimo grado d'impatto emotivo che è stato capace di toccare pad alla mano, ed è possibile che sia proprio per questa ragione che numerosi appassionati che non l'hanno vissuto “direttamente” tendono a percepire delle criticità nella narrativa.
Nel videogioco è chi impugna il controller a muovere i fili degli attori sullo schermo e questa caratteristica nel corso degli anni si è dimostrata tanto dirompente da sconvolgere l'opinione pubblica. La missione “Niente Russo” di Call of Duty: Modern Warfare 2, nella quale un agente sotto copertura vestiva i panni del terrorista per compiere un terribile massacro di civili nel cuore di un aeroporto, finì infatti al centro di una tempesta mediatica e fu contestualmente rimossa da numerose versioni nazionali.
Questo perché se il cinema può permettersi di posizionare di fronte alla telecamera ogni sorta di scenario raccapricciante in ragione dell'incapacità di agire di quelli che restano pur sempre semplici spettatori, il videogioco può e deve assumersi la responsabilità di immergere il fruitore nel vivo della vicenda, facendogli vivere in prima persona – che sia in modo attivo o passivo – anche situazioni vicine al “limite”.
Questa è proprio la caratteristica unica delle esperienze interattive che tanto spaventa la stampa generalista, spesso indignata dal fatto che il videogioco abbia l'audacia di mettere il dito del giocatore sul grilletto di un'arma da fuoco, lasciando nelle sue mani quello che a conti fatti è il destino di mondi fittizi.
Questa sorta di “empowerment” garantito dalla componente interattiva ha portato l'evoluzione del game design a individuare tre formule chiave per l'interpretazione del racconto: la narrativa lineare, quella a “filo di perle”, e quella fondata sulla ramificazione. Se le esperienze lineari ricalcano gli insegnamenti del romanzo, e di conseguenza la formula cinematografica, il “filo di perle” è nato per aggiungere storie collaterali al filone narrativo principale, ciascuna dotata di un incipit e di una conclusione, come ad esempio sono le “sotto-trame” dedicate alle gilde di The Elder Scrolls. Ancora diversa è la struttura delle opere ramificate, che arrivano a stravolgere la trama e a proporre finali multipli in base alle strade imboccate dall'utente.
Sono ancora in pochi, tuttavia, gli sviluppatori volenterosi di discostarsi dalla tradizione narrativa e dalle principali formule anche legate all'interazione per cercare nuovi metodi di tessere il racconto, di fatto destrutturando l'approccio dominante. Così, ad esempio, FromSoftware e Mobius Digital hanno sacrificato la trama orizzontale per racchiudere l'anima nel mondo di gioco, Returnal di Housemarque ha sfruttato l'espediente del loop temporale e le meccaniche tipiche del roguelike per nascondere fra i pixel un immenso enigma narrativo, mentre Wyldermyth di Worldwalker Games ha alternato la struttura procedurale con fasi artigianali per dipingere un affresco in continuo divenire.
Fanno categoria a sé tutte le produzioni che hanno optato per il difficile modello della narrativa emergente che si realizza quando sono gli stessi videogiocatori a tratteggiare i confini del racconto, talvolta arrivando a dar vita a una vera e propria “storia”. Se opere come Elite: Dangerous hanno semplicemente accarezzato l'idea con una spintarella agli utenti, è negli MMORPG come Dark Age of Camelot che questa ha raggiunto la sua massima espressione, gettando le fondamenta di battaglie che sarebbero state ricordate negli annali dei server. Oggi questo genere d'interpretazione brilla al massimo nei confini della dimensione role-play di GTA V, dove migliaia di appassionati scrivono giorno dopo giorno la leggenda del proprio personaggio.
Ormai, dopo oltre quarant'anni di evoluzione del medium, gli autori hanno sperimentato in diverse direzioni, arrivando tuttavia ad imboccare attorno ai '90 l'autostrada dell'emulazione. Se da una parte è estremamente semplice affermare che i videogiochi debbano smettere di imitare gli altri media e sfruttare al massimo la propria identità, è oltremodo difficile sedersi attorno a un tavolo e individuare nuove strade per destrutturare la narrativa tradizionale e trovare derive originali.
Questa, d'altra parte, è proprio la spinta che ci aspettiamo dall'ingresso del vivo di una nuova generazione di console per videogiochi, un momento che storicamente ha segnato l'ingresso in scena di nuove formule di gameplay, di nuovi franchise, perché no, di una nuova dimensione produttiva, ma anche di metodi inediti di interpretare la narrativa.
Una ricerca che, sfortunatamente, ha in parte latitato durante l'ottava generazione e che sembra voler proseguire il medesimo trend anche nei primi battiti della nona.