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I videogiochi open-world come fuga dalla realtà - editoriale

Evoluzione e magia dei mondi aperti al tempo della quarantena.

Prima della quarantena, prima del distanziamento sociale che ci sta costringendo fra le mura domestiche e, soprattutto, prima che l'OMS ritrattasse interamente la sua opinione riguardo i videogiochi, noi appassionati conoscevamo a fondo gli straordinari effetti benefici che si nascondono dietro le cascate di pixel.

Chi sta scrivendo queste righe, ad esempio, ha scoperto la potenza dei mondi virtuali durante un periodo di isolamento non dissimile da queste interminabili e noiose giornate primaverili. Oggi come allora, i videogiochi possono trasformarsi in un'ancora di salvezza unica nel suo genere: non c'è medium migliore per aprirsi un varco fra le mura di casa, per attraversare lo specchio come la Alice di Carroll e abbandonarsi alla scoperta di universi mozzafiato.

La quarantena ci ricorda il valore delle piccole cose. Cose che normalmente risulterebbero addirittura tediose, come il tragitto in bici per raggiungere il luogo di lavoro, le camminate di prima mattina per arrivare in classe in orario, l'attesa dei mezzi pubblici sotto il timido sole di aprile. Ecco, nei videogiochi si verificano più o meno le stesse situazioni, e non c'è momento migliore per godersi lunghissime cavalcate accanto a splendidi paesaggi, per caricarsi merci sulle spalle e attraversare a piedi gli Stati Uniti, per prendere un respiro profondo e assaporare lentamente l'incredibile lavoro svolto dagli artigiani del settore.

Il fiume Lannahechee, la città di Saint Denis, le montagne dell'Ambarino. In Red Dead Redemption 2 si percepisce il suono del vento, il peso del terreno, la fisica dell'acqua.

Il brusco distacco dai ritmi frenetici della vita quotidiana muta radicalmente anche la luce che illumina i mondi digitali, specialmente quelli aperti, i fondali di quei videogiochi open-world che da anni monopolizzano il mercato. Un tempo era evidente che non ci fosse finestra più efficace del mondo aperto per affacciarsi sulla dimensione oltre lo schermo, ma le recenti carenze sul piano dell'innovazione hanno finito per avvolgere il genere in una nube di mediocrità, conseguenza inevitabile del costante processo di standardizzazione.

Ciò nonostante, anno dopo anno, arriva sempre un grande videogioco capace di immergerci mani e piedi all'interno di una dimensione costruita magistralmente, trascinandoci nel vortice della pura e semplice esplorazione o catapultandoci fra sceneggiature brillanti e pronte a sorreggere mondi fantastici. Che sia stato fra le montagne innevate di Skyrim, in mezzo alle nebbiose paludi del Velen o per le violente strade di Los Santos, ciascuno di noi ha lasciato un pezzo di cuore in mezzo ai panorami delle ultime generazioni, scoprendo universi talmente convincenti da sembrare quasi vivi.

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Certo che ne han fatta di strada, i videogiochi open-world. È stato quasi un battito di ciglia. Era il 1979 quando Adventure raccoglieva l'eredità delle prime avventure RPG testuali per mettere su schermo quella che potremmo considerare la prima, reale incarnazione dell'esplorazione fine a sé stessa. Poi è stata la volta di Ultima, nel 1981, il titolo che forse più di ogni altro spinse l'evoluzione dell'industria verso i lidi del mondo aperto.

Tempo tre anni ed Elite sarebbe piombato sul mercato come una palla da demolizione, consegnando agli appassionati un'intera galassia e una navetta con cui navigare liberamente fra le stelle. Di lì a breve, Miyamoto e Tezuka avrebbero infilato il piede nella porta per dire "ci siamo anche noi", trainando Nintendo per mezzo di quello che probabilmente rappresenta il primo action-adventure open-world non lineare, e stiamo parlando ovviamente di The Legend of Zelda.

Breath of the Wild, checché se ne pensi, ha reinventato la struttura del mondo aperto. C'è una sola regola: non importa dove sei, ti trovi sempre nel luogo giusto al momento giusto.

Insomma, in meno di dieci anni gli sviluppatori passarono dalla "mera" descrizione testuale di affascinanti regioni fantasy alla concreta riproduzione di caverne e praterie da battere centimetro per centimetro in cerca di tesori. Accanto a Link vide luce anche Simon Belmont, un personaggio che nel corso della caccia a Dracula scoprì un'ispirazione che fece gola a Samus Aran: nel 1994, Super Metroid scolpì nella pietra gli assiomi del metroidvania.

Tre concetti differenti, tre interpretazioni che misero le potenzialità del mondo aperto sotto gli occhi di tutti: che si trattasse di un'esplorazione senza particolari pretese, come nel caso di Elite, di un'avventura interattiva senza precedenti, strada percorsa da The Legend of Zelda, o di uno strumento per esaltare il comparto del gameplay, la filosofia open-world iniziava ad essere interpretata come la destinazione finale per il medium, come il punto d'arrivo al quale tutti, presto o tardi, sarebbero giunti.

L'effetto valanga fu inevitabile: Shadowrun calò il sipario sul Super NES per inaugurare una prima epoca tridimensionale costellata di idee, concetti e meccaniche che avrebbero cambiato la storia. The Elder Scrolls Arena tentò per ultimo di scrollarsi di dosso il limite tecnologico dell'epoca, ma furono titoli come l'onnipresente Ocarina of Time, l'eterno Baldur's Gate, il redivivo Shenmue ed il mastodontico Final Fantasy VII a dimostrare con prepotenza la presa mentale della deriva open-world, poi divenuta open-city e open-level.

L'abbandono della Foresta di Kokiri ed il conseguente primo impatto con lo sconfinato Regno di Hyrule divenne un momento catartico, una preziosissima istantanea destinata ad elevare gli standard del genere, l'inizio di un viaggio che avrebbe bucato lo schermo. La fuga da Midgar, dal canto suo, si trasformò in un quadro indimenticabile per gli appassionati, un dipinto che raccontava pennellate di malinconia e libertà ritrovata sullo sfondo di una colonna sonora da brividi.

L'aria gelida delle Skellige, quella pesante di Novigrad, il tanfo del Velen. The Witcher 3 Wild Hunt è un altro titolo che va oltre il confine dello schermo.

Allora fu evidente che il futuro aveva in serbo ben più di un semplice asso nella manica, e in effetti stava per calare una scala reale di successi destinati a scatenare la rivoluzione. Era l'epoca dei primi Grand Theft Auto in tre dimensioni, dello splendido oceano in cel-shading di Wind Waker, dell'esagerata ampiezza di The Elder Scrolls: Morrowind, della sottile magia riversata da Ueda dentro Shadow of the Colossus; insomma, era l'epoca in cui per la prima volta quella di una vita parallela fra i pixel appariva come una prospettiva plausibile.

Furono in molti a perdersi nella caccia ai colossi, facendo propria l'affascinante dimensione onirica divenuta protagonista del film Reign Over Me, ma alcuni scelsero addirittura di trascorrere letteralmente interi anni oltre lo schermo, specialmente nel 2004, quando la splendida scatola di World of Warcraft raggiunse gli scaffali dei negozi; uno scrigno che non custodiva al suo interno solamente lo sconfinato universo virtuale di Azeroth, ma anche migliaia di altre persone reali con cui viverlo, esplorarlo e condividerlo.

Neppure il balzo generazionale e l'avvento dei servizi online furono sufficienti per prosciugare la benzina dell'open-world, anzi, finirono per proiettarlo verso vette ancor più elevate. La saga di Assassin's Creed cominciò a spingersi verso il limite tecnico, alcuni tentarono percorsi inediti, come lo strano ma eccitante connubio con il racing di Burnout Paradise, mentre altri consolidarono il proprio portfolio, come fece Bethesda con Oblivion e Fallout. Persino Nintendo, durante la folle corsa di Wii, non mancò di mettere in scena giganti del calibro di Xenoblade Chronicles.

Era solamente un antipasto della vera golden age degli open-world, una decade artisticamente ed economicamente ricchissima. Un periodo di incessante innovazione inaugurato da opere inarrivabili come Minecraft e Dark Souls, passato attraverso le acque cristalline di Assassin's Creed Black Flag, forgiato dalla splendida narrativa di The Witcher 3: Wild Hunt. L'epoca che ha conosciuto la rivoluzione ludica di The Legend of Zelda: Breath of the Wild, i perfect-score nel far west di Red Dead Redemption 2, le interminabili scarpinate negli States di Death Stranding.

Death Stranding è stato attaccato da alcuni ed elogiato da altri. Forse nessun partito ha ragione, ma le lunghe camminate, di questi tempi, fanno gola a ognuno di noi.

In quanti sono rimasti stregati dall'esplorazione di Lordran, scoprendo un mondo ostile e spietato che, lentamente e opponendo resistenza, si concedeva al giocatore fino a farlo innamorare? In quanti hanno amato vestire i panni di Geralt di Rivia, strappando con decisione il velo di ipocrisia che avvolge il genere umano? I tramonti rossi sui colli del Regno di Hyrule, le cavalcate al chiaro di luna sulle rive del fiume Lannahechee, le incessanti traversate solitarie di Sam Porter Bridges. Sono tutti ricordi splendidi. E sono tutti ricordi legati a mondi che non esistono.

Adesso eccoci qui, chiusi in casa assieme a una serie di scatolette magiche attaccate ai televisori, macchine che alla semplice pressione di un tasto alzano il sipario su mondi sconfinati, personaggi affascinanti e storie indimenticabili. È un periodo sfortunato, ma possiamo ritenerci fortunati nella sfortuna, perché vivere un'avventura è diventata un'operazione estremamente semplice, un viaggio possibile anche in mezzo a quattro mura spoglie. È sufficiente che un vecchio albero appassito ci metta sulle tracce di una misteriosa principessa, gettandoci nel cuore di una landa sconosciuta.

In questi giorni, in tanti attenderanno l'apertura delle pesanti porte di un rifugio antiatomico, lasciandosi accecare dalla luce del sole mentre un panorama sconfinato griderà esplorazione. Altri cavalcheranno fra campagne e praterie in sella a un fedele destriero, forse nel far west, forse in una decadente terra medievale. Altri ancora si perderanno nei meandri del tempo, magari nei mari dell'antica Grecia, o magari nel futuro, a bordo di una fantascientifica astronave. È vero, i nostri corpi hanno l'obbligo di rimanere chiusi in casa, ma la mente resta libera di viaggiare; e il viaggio, per chi ama i videogiochi, è una storia bellissima.

Avatar di Lorenzo Mancosu
Lorenzo Mancosu: Cresciuto a pane, cultura nerd e videogiochi, i suoi primi ricordi d'infanzia sono tutti legati al Super Nintendo. Dopo aver lavorato dentro e fuori dall'industry, è finalmente riuscito ad allontanarsi dalle scartoffie legali e mettere la sua penna al servizio di Eurogamer.it.

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