Il Doodle dell'Isola dei Campioni meriterebbe un Game Award
Quando la cultura di un Paese è tale da plasmare Google.
Tokyo forza le Olimpiadi per togliersi il pensiero e la patata bollente di dosso. Sono uno strascico del 2020, un sipario da aprire e chiudere il più in fretta possibile. Gli spalti sono vuoti e il pubblico è a casa, al mare o al ristorante sventolando il suo Green Pass. Eppure, Google ha pronta la sua Isola dei Campioni, un videogioco che serviva a far festa ma che per come stanno le cose (basti pensare agli atleti sull'orlo di una crisi di nervi) fa l'effetto della parata onirica in Paprika, il lungometraggio di Satoshi Kon che trasforma il Giappone in un caotico ammasso di oggetti psichedelici.
Un Doodle vacuo, più per l'occasione rovinata dalle contingenze dovute al Covid che per altro. Ma fosse stata un'Olimpiade come le altre, sarebbe stato solo un orpello: così è il trionfo del videogioco, la virtualità usata come strumento per unire e cantare un inno alla cultura giapponese, lì dove non è permesso dal doveroso distanziamento sociale. Per realizzare quest'operetta è stato chiamato Studio4°C: gente che fa animazioni già dal lontano 1995, dai tempi di Spriggan in compagnia di Katsuhiro Otomo (Akira). Un team di produzione che nel curriculum vanta Tekkonkinkreet e animazioni per Hack, Catherine e Asura's Wrath.
Siamo di fronte a un'operazione degna di Devolverland Expo e perché no, di qualche premio ai Game Awards. Ricordate il modo in cui Devolver e i Flying Wild Hog hanno unito i giocatori, costruendo uno showcase interattivo dei loro prodotti? Avete presente il modo in cui il buco nero di Fortnite ha incollato milioni di giocatori a uno schermo, magari tra un pasto e l'altro? La scala è diversa, ma eccoci lì, ancora una volta. Tre volte nell'arco di circa due anni.
Di interessante c'è il modo in cui questi Giochi Doodle dell'Isola dei Campioni non stupiscano affatto. Il Giappone, dal dopoguerra ad oggi, è sinonimo di tecnologia, manga e animazione. L'intero folklore nazionale è stato più volte sparpagliato ai quattro venti, lasciando che certe suggestioni fossero conosciute grazie alle più diverse interpretazioni dei suoi artisti. Per trovare familiarità in certe scenografie, non serve scoprire che al Pokémon Ho-Oh corrisponda a una quasi omonima fenice del Sol Levante, che i Beyblade avessero i nomi dei quattro spiriti protettori di Kyoto, che Sailor Mars e Inuyasha prendessero elementi dalle tradizioni dello Shintoismo.
Una così naturale (quasi logica), eppure globale apparizione del videogioco, non s'era mai vista. Non si tratta di colonialismo culturale, non è che subdolamente è stato imposto un Big Mac. È una diffusione da Grecia antica, che pure inglobata da Roma ha fatto sì che nel resto del mondo si accogliesse e riconoscesse la sua intera mitologia. Oggi il fumetto occidentale, per esempio, non può non confrontarsi con Kentaro Miura, che con il suo Berserk aveva preso tanto proprio dalle atmosfere europee. Un Pacific Rim non può che scimmiottare Kaiju e Mecha orientali. I videogiochi non possono che muoversi dalle solidissime basi di game design costruite da Shigeru Miyamoto e colleghi.
Aperto il browser siamo di fronte a un gioco fluido e ricco visivamente, persino bello da esplorare. Semplice, giapponese fino all'ultimo pixel e pieno di contenuto segreto: gameplay che solo qualche anno fa non si poteva pensare di proporre globalmente. Al massimo alla fetta di appassionati. Quello che si poteva limitare a pochi minigiochi (un T-Rex Runner diciamo) è invece quasi un JRPG, ben disegnato, con side-quest, dialoghi vivaci e sfondi degni di Ghibli. Uno sforzo inspiegabile se Google non immaginasse qualcuno, un numero tutt'altro che esiguo di giocatori, pronto a dedicarsi alla sfida (ma Google non immagina, sa, proprio perché parliamo di Google).
Per chi non avesse tempo, le partite (se non cancellate la cronologia), restano persino salvate. Non che il gioco duri tanto, ma nel suo piccolo è interessante, snello, non ha l'ombra di un bug ed ha una cura che se nei Tripla A spesso manca per l'imponenza dei lavori, negli indie spesso manca perché non tutti vantano delle stesse risorse e competenze. C'è persino una componente online, nella raccolta di punti per portare avanti la propria squadra. E ci sono persino scelte narrative, perché ogni squadra esclude l'accesso alle sedi dei rivali.
Questa non è una recensione, inutile dilungarsi nel dire quanto sia giocabile la sezione di skate o il Ping Pong all'interno dell'Isola. Quel che si vuole sottolineare è che persino in un contesto come questo ci sono elementi familiari per tutti, già in apertura si ha l'impressione che la ricerca dei campioni da sfidare sia equivalente alla ricerca delle Sfere del Drago, alla ricerca dei Capipalestra nel già citato Pokémon, alla ricerca delle reliquie del santo in JoJo. Non serve aver giocato a Persona 5, Sekiro o Tenchu e conoscere mitologia e genealogia di Amaterasu per trovare qualcosa di familiare nel Doodle di questi giorni.
Questo Doodle è importante perché dimostra quanto pervasiva possa essere una cultura coerente e matura, che certo ha le sue ombre socio-economiche, soprattutto per quanto riguarda lavoro e attenzione psicologica ai singoli, ma che nell'arte ha punte di diamante impossibili da ignorare, per influenza e diffusione di tecniche narrative.
Intanto da questa parte del mondo la Farnesina ha chiesto a Forge Reply di fare un gioco acchiappa-turisti, tale ITALY: Land of Wonders. Provatelo, per amor di patria diciamo. Ma per quanto i Reply siano in gamba (tra l'altro hanno alle spalle un bel gioco su Lupo Solitario), dimostra una sola cosa: non siamo in grado di appropriarci di una nostra estetica, di ricamarcela intorno. La Disney è più brava di noi, con le nostre storie: siano Vespe, sirene o Pinocchio. Quando toccherà a noi, se Google avrà solo pizze, mandolini e se siamo fortunati Dante, Calvino e Fellini, chiediamoci che sforzo abbiamo fatto per diffondere tutto il resto.