Skip to main content

Il multiplayer di Death Stranding ha cambiato le regole del gioco - editoriale

Storia di un comparto multigiocatore incredibile e di un milione e mezzo di mi piace.

Quando ho preso in mano il pad e avviato Death Stranding per la prima volta, la componente che meno m'interessava era senza alcun dubbio il Social Strand System, quel comparto multigiocatore asincrono che pensavo avrebbe potuto rovinare la spettrale solitudine dell'esperienza. In un mondo tanto ostile, ero convinto che poter contare sull'aiuto di qualche estraneo per uscire da una situazione complicata avrebbe rappresentato una macchia indelebile sul mio curriculum, un po' come quando si scopre un'area segreta nei titoli di From Software grazie unicamente al messaggio di un altro giocatore.

Così, mi sono posto un obiettivo infantile: riconnettere gli Stati Uniti prima di chiunque altro, spingendomi verso ovest con la determinazione del pioniere che non vede l'ora di assaporare terre sconosciute, prendendo le distanze da qualsiasi forma di civiltà al fine di vivere da protagonista la seconda scoperta dell'America.

La spettrale solitudine di Death Stranding è potentissima. Non ha pari nel mondo dei videogiochi, forse se la gioca solo con Shadow of the Colossus.

Che errore madornale è stato. A metà del percorso, il povero Sam Porter Bridges urlava nel silenzio, chiamando aiuto senza poterne assolutamente ricevere dai colleghi. Niente ponti, niente scale, niente chiodi da arrampicata. I veicoli a secco restavano inerti in mezzo ai campi, come eterni monumenti a testimonianza dei fallimenti. Ogni montagna era un ostacolo insormontabile, ogni fiume una potenziale condanna, ogni temporale una disgrazia.

Non potevo immaginare che le familiari pianure della regione centrale si sarebbero impennate nelle montagne rocciose, fra metri di neve fresca e imprevedibili slavine. Ciascuna vetta conquistata si spalancava su una nuova vallata deserta e pronta a reclamare decine di stivali in brandelli, celando orde di Creature Arenate in tutti gli angoli della solitudine.

In cima ad ogni picco, nel mezzo dei ghiacciai, piantavo una bandiera: un generatore, il traliccio di una teleferica, un chiodo d'arrampicata per facilitarsi la vita in discesa. Certo, la componente narrativa di Death Stranding è un motore senza pari, ma l'obiettivo numero uno rimaneva quello di raggiungere il Pacifico. Il disgraziato Sam era costretto a contare solamente sulle proprie forze, e più di una volta ho temuto che non sarebbero state sufficienti.

La prima struttura non si scorda mai. La mia fu un generatore, appena fuori dal Centro Logistico di Lake Knot City.

Quando ci si abitua a intravedere nella coltre di nebbia l'inconfondibile luce azzurra delle strutture costruite da altri giocatori, diventa dura doverne fare a meno, esser consapevoli che non ci sarà un generatore ad attenderci dopo lo scollinamento, che nessuna scala potrà permetterci di scavalcare un crinale. È stata una sfida tanto incredibile da portarmi a dubitare ancor di più dell'efficacia del Social Strand System. Chi avesse affrontato quei sentieri una volta invasi di strutture, pensavo, si sarebbe perso un segmento fondamentale dell'opera, il cuore pulsante del viaggio di formazione.

Il Graal era ormai vicinissimo: le pietraie iniziavano a sostituirsi alle rocce acuminate, mentre i torrenti disegnavano i confini di una lunghissima vallata. Sembrava impossibile, ma ce l'avevamo fatta, e senza neppure una goccia di amaro Montenegro. Perso nel nulla e isolato dal mondo, proprio come Sam, avevo raggiunto l'altro capo delle terre sconosciute. Si era concluso un cammino eterno, a tratti destabilizzante, mai noioso, una vera e propria esperienza di vita, un viaggio capace di riempirmi come mai nessun videogioco aveva fatto prima.

Poi, qualcosa è cambiato. Tornando indietro, ho iniziato lentamente ad imbattermi nelle tracce del passaggio degli altri corrieri. Qualche ricovero, un paio di ponti, una torre di controllo che svettava fra gli alberi di una foresta. Arrivato nelle steppe ho trovato ad accogliermi un'autostrada, circondata da una festa di nomi, da centinaia di testimonianze dell'esistenza di altri Sam Porter Bridges. Possibile che il mondo fosse cambiato così tanto rispetto all'ultima visita?

Dopo centinaia di scalate, è incredibile che venga voglia di farne un'altra ancora solamente per aiutare altri giocatori.

Il territorio ostile, ruvido e impenetrabile era divenuto improvvisamente morbido, accogliente, piacevole alla vista e al passaggio. In una manciata di secondi si potevano fare traversate che avrebbero richiesto ore di fatiche, senza dover smontare dai veicoli né preoccuparsi dei consumi. Era un trionfo dell'efficienza: il mondo si era riconnesso, ed era successo esclusivamente perché qualcuno aveva deciso di mettersi all'opera, ottenendo in cambio una manciata di futili Mi Piace virtuali.

È stato allora che mi sono reso conto della potenza del Social Strand System. Ironicamente, proprio come Sam, non avevo potuto né voluto contare sull'aiuto di nessuno, ma sentivo il bisogno viscerale di restituire tutta l'esperienza accumulata. Conoscevo i percorsi più gettonati, i passaggi più critici, le zone più inaccessibili. Avevo vissuto sulla mia pelle la perdita di un veicolo, l'esaurimento di una batteria, la fatica per raggiungere una vetta. Così, tutto d'un tratto, la componente di gameplay che più avevo disdegnato si è trasformata in una vera e propria missione.

Avevo perso varie moto nell'ultimo guado prima delle montagne. Ho deciso di cominciare da lì, costruendo un ponte che, almeno inizialmente, sapevo sarebbe passato inosservato. È stato il primo fiocco di neve in una valanga: qualche giorno più tardi avevo colmato tutti i valichi più odiosi, creando rampe che avrebbero permesso persino ad un autocarro di concludere le consegne in scioltezza.

Esperienza, formazione e insegnamento. L'intero viaggio si basa sulla condivisione del proprio fallimento, in modo da salvare gli altri.

Dopo qualche ora stavo progettando una rete di teleferiche per connettere tutte le strutture più inaccessibili, un circuito pensato per collegare le vette più elevate delle UCA. Fluttuando nel vuoto, mi tornavano alla mente tutti i luoghi in cui avevo dovuto abbandonare un esoscheletro scarico, gli strapiombi che mi avevano costretto a prendere pericolose deviazioni, le regioni in cui avevo bramato una stanza sicura. Era giunto il momento di sistemare le cose.

I Mi Piace cominciavano a lievitare e io, proprio io che avevo sempre disprezzato la validazione virtuale del "Like", ero ormai catturato nel loop, intrappolato nel costante inseguimento di quell'ossitocina tanto cara all'autore. La cosa più emozionante era proprio l'assenza di un premio concreto: era sufficiente la consapevolezza di rendersi utili per giustificare le decine di viaggi chilometrici sommersi da tonnellate di metalli e ceramica, al solo fine di completare la rete autostradale.

Tutta l'esperienza accumulata si stava riversando in maniera più che mai concreta nei viaggi di migliaia di altri Sam, alcuni volenterosi di mostrare semplice apprezzamento, altri determinati a lasciare la propria impronta nel mondo di gioco, mettendocela tutta per riconnettere gli Stati Uniti. Pian piano iniziavo a riconoscere i loro nomi, a ricordare le loro strutture, a premiare ogni piccolo sforzo per la ricostruzione.

Alla fine, l'inseguimento dei mi piace ricompensa il giocatore con iniezioni di una sensazione estremamente appagante.

Sarebbe inutile nasconderlo: la cosa più incredibile è l'inaspettata emersione di una componente competitiva all'interno di un ecosistema per sua stessa natura cooperativo. I costruttori, i benefattori, quelli che ironicamente potremmo chiamare addirittura MULI, ovvero giocatori alla costante ricerca di Mi Piace, finiscono inevitabilmente per darsi battaglia cercando di rendersi più utili possibile. E io mi sono trasformato nel MULO per eccellenza, spendendo ore e ore a ristrutturare il mondo di gioco in cambio di benefiche iniezioni di dopamina.

Death Stranding vive di queste sensazioni. In un medium che viene costantemente ridotto alla fabbrica del divertimento, ci siamo desensibilizzati al punto da a trascurare l'importanza delle piccole soddisfazioni, del senso di appagamento, dei sentimenti e delle emozioni più rare fra quelle trasmesse dai mondi virtuali. Per la prima volta, un videogioco ha preso una deviazione dall'egoismo e dalla competitività, trasformando gli appassionati in altruisti impegnati socialmente. Ad alcuni darà fastidio sentire questa affermazione, ma solo Hideo Kojima poteva riuscire in una simile impresa.