Il processo ai Chicago 7 - recensione
Il Potere non cambia mai.
Il processo ai 7 di Chicago, uscito in sala il 30 settembre e in streaming su Netflix dal 16 ottobre, è un film che ripercorre una vicenda oggi dimenticata dai più, ossia il processo conseguente ai gravi fatti avvenuti nell'agosto del 1968 a Chicago, durante la convention democratica.
In quell'occasione si doveva decidere quale sarebbe stato il prossimo candidato contro Nixon, se il vecchio Humphrey che si spacciava per nuovo, il più "sinistrorso" McCarthy o il liberal McGovern.
Nessuno di loro era però "nuovo" per l'ala più politicizzata dei tanti movimenti giovanili che fiorivano in continuazione nel paese, malvisti anche dalla sinistra più moderata, negli anni più caldi della contestazione, sotto il peso della guerra del Vietnam con il vertiginoso aumento dei reclutamenti forzati e dei morti, che avevano toccato quota 20.000.
In quell'anno la Cecoslovacchia era stata invasa dai russi, c'era stata l'offensiva del Tet e l'occupazione della Columbia University. In aprile era stato assassinato Luther King e in giugno era toccato a Bobby Kennedy (erano tempi inimmaginabili oggi).
Dell'argomento si è interessato Aaron Sorkin, l'uomo che come sceneggiatore ci ha dato cose come The West Wing, Studio 60, The Newsroom, La guerra di Charlie, L'arte di vincere, Steve Jobs e The Social Network, inventando un modo davvero unico di narrare, di mettere in scena parole e fatti.
Tutto scorre veloce nei titoli di testa, con tanti spezzoni e filmati originali che gradualmente si mischiano con la finzione. Che ci fa subito conoscere i vari protagonisti della storia, nomi più noti e altri per noi quasi sconosciuti.
Tutti sono a vario titolo rappresentanti di diversi movimenti, riuniti a Chicago per protestare insieme ma già divisi e litigiosi all'interno e lontani per estrazione sociale, culturale e razza (ieri come oggi).
Contro di loro si scaglierà l'intera amministrazione della città, il sindaco Richard Daley, con la polizia e la guardia nazionale schierate contro i manifestanti, rifiutando qualunque autorizzazione per costringere scientemente all'illegalità i numerosi partecipanti, in una palese provocazione mirata a fomentare disordini sempre più gravi e avere pretesto per reagire con sempre maggiore violenza (ieri come oggi).
Cinque mesi dopo, sotto l'amministrazione del fresco eletto Nixon, l'appena insediato procuratore generale convoca due suoi uomini di fiducia per dare inizio alla vendetta di regime, per lanciare un messaggio al paese, a quella maggioranza silenziosa che aveva votato Nixon.
Ha così inizio un processo farsa con l'accusa di cospirazione contro 7 personaggi, accuratamente selezionati, che durerà 151 giorni, la cui conclusione è già scritta nella scelta del giudice Julius Hoffman, personaggio di rara faziosità e di tale ottuso autoritarismo da diventare un autogol per il Sistema (questo è il processo durante il quale Bobby Seale, leader delle Black Panther, fu legato e imbavagliato, provocando la reazione perfino della pubblica accusa).
Grazie alle infinite forzature legali, alle irregolarità formali e ad ogni tipo di smaccato favoritismo nei confronti dell'accusa, sarà gioco facile arrivare alla condanna predestinata di un gruppetto di personaggi in fondo indifesi di fronte al complotto messo in piedi dall'establishment.
Contro di loro si era dispiegata anche l'FBI, allora al massimo del suo strapotere sotto l'ala di Hoover, che impunemente e grazie a nugoli di infiltrati, creava dossier, falsificava prove e (forse) organizzava esecuzioni di oppositori scomodi. A nulla servirà il coraggioso intervento a loro favore di Ramsey Clark, il precedente procuratore generale.
La narrazione è sempre appassionante, spezzettata fra dichiarazioni in corte, momenti di riunioni private, contemporanee e precedenti i fatti, che scivolano nei flashback composti da filmati d'epoca e scene di fiction, per cui ogni narrazione verbale si fa azione.
Ben reso lo scontro finale, l'evento su cui gira tutta la storia, con la Polizia e la Guardia nazionale a creare la trappola in cui far finire i dimostranti. Sulla lettura dei nomi dei 4752 americani morti in Vietnam nel tempo della durata del processo, scorrono i nomi dei protagonisti e come si siano risolte le loro vite.
Film così sono una vera e propria chiamata alle armi per gli attori democratici e qui la lista è lunga: Eddie Redmayne interpreta Tom Hayden, attivista per i diritti civili, forse il più legalitario, che come sarà predetto dal Giudice Hoffman diventerà "membro produttivo per il suo paese", arrivando poi a essere per 18 anni marito della allora rivoluzionaria Jane Fonda.
Sacha Baron Cohen (bravissimo) è Abbie Hoffman, attivista della sinistra radicale (Youth International Party), con il suo socio di protesta Jerry Rubin, che è Jeremy Strong (l'attore portato alla notorietà dalla splendida serie Succession), due che sembravano solo dei provocatori hippies strafatti e fan del libero amore.
John Carroll Lynch interpreta il pacifista e obbiettore di coscienza David Dellinger, il piccolo borghese per bene, l'ex boy scout ligio alle regole ma conscio che le stesse regole devono valere anche per il Potere. Bobby Seale, leader delle temutissime e odiatissime Black Panther e tirato dentro al processo in modo totalmente pretestuoso, è affidato a Yahya Abdul-Mateen II.
Gli avvocati della difesa sono Mark Rylance, che è il pacato ma deciso William Kunstler (sul quale esiste il documentario Disturbing the Universe), mentre l'attore Ben Shenkman è Leonard Weinglass più ironico e distaccato. Joseph Gordon Levitt è il Procuratore Richard Schultz, la pubblica accusa, ideologicamente perplesso ma ligio al suo dovere.
Al grande Frank Langella si è data la possibilità di divertirsi con il suo stolido giudice Julius Hoffman, con un'idiosincrasia comica ma offensiva nei confronti dei nomi degli imputati. Michael Keaton compare brevemente nel ruolo del coraggioso ex procuratore Generale Ramsey Clark (si tratta di personaggi tutti realmente esistiti e non c'è che andare su Wikipedia per scoprire come sono finiti). E poi abbiamo una sfilata infinita di volti noti, di gente vista in mille film e serie TV.
Sulle note musicali un po' ridondanti scritte da Daniel Pemberton, il film si chiude su uno di quei finali edificanti, sentimentali, illusori (retorici), che tanto piacciono al grande cinema americano, dove alla fine i "buoni" in qualche modo vincono anche se sembrano perdere, per cui i liberal (giustamente) si gloriano delle loro lotte e delle loro vittorie che però appartengono a un tempo sempre più lontano lontano, come una galassia gloriosa che si allontana nel buio dello spazio profondo.
Ci riferiamo all'intervento decisivo nella Seconda Guerra Mondiale, alle lotte degli anni '60 contro la segregazione razziale e contro la guerra del Vietnam, e a tutte le battaglie a favore di emancipazione femminile, rivoluzione sessuale e dei costumi in generale (e non basta un presidente di colore per riequilibrare il piatto della bilancia).
Con una sceneggiatura movimentata e ricca di battute, Aaron Sorkin ricostruisce il clima di caccia alle streghe, la feroce divisione dell'opinione pubblica, drammaticamente simile a quello che Trump sta incrementando da quando è stato eletto (divide et impera): buoni e cattivi, bianchi e neri, chi non è con me è contro di me, rivestendo di attualità una storia persa nel passato.
I fatti di Chicago erano già al centro della narrazione del film 'America, America, dove vai?', tempestivamente diretto nel 1969 da Haskell Wexler, inserito nel catalogo della Biblioteca del Congresso. Ma esiste anche un film in animazione del 2007, Chicago 10, e un film televisivo HBO del 1987, Conspiracy: The Trial of the Chicago 8. Se si vuole però stare più male, se si vuole capire l'improvvisazione ingenua di certa protesta in quegli anni, consigliamo la visione del grande classico Fragole e sangue, film del 1970 che raccontava le occupazioni delle Università.
Sono sempre stati bravi gli americani a mettere in scena la fine dei sogni appena iniziati, su cui calerà come pietra tombale Easy Rider solo un anno dopo. Perduto lo slancio davvero rivoluzionario per quanto riguardava pubblico e privato, tutte le pulsioni si sarebbero attutite, accartocciandosi su se stesse senza più riuscire a produrre una valida alternativa, in mancanza di sbocchi politici validi, per arrivare ai tristissimi giorni nostri.
Il film Il processo ai Chicago 7 ha il pregio indiscutibile di riportare in evidenza fatti ormai dimenticati, fatti che nella sostanza si ripetono uguali nei decenni sotto diverse presidenze, con meccaniche simili anche se scaturiti da eventi diversi.
Sorkin, che scrive e anche dirige ereditando il film da Steven Spielberg, lascia trapelare la sua intima convinzione che in ogni modo quello americano sia il sistema migliore, quello che nonostante tutto funziona meglio, come un organismo che si ammala ma contiene gli anticorpi per guarire (certezza che noi abbiamo perso da tempo). Per citare una battuta del film, "se davvero credi nell'intelligenza della maggior parte delle persone, ti si spezzerà il cuore ogni giorno della tua vita".
Interrogato, Abbie Hoffman dirà: "Credo che le istituzioni della nostra democrazia siano straordinarie ma che in questo momento siano in mano a persone orribili". Come non concordare.