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Il tramonto del Sol Levante - editoriale

Il mondo dello sviluppo giapponese è in crisi da anni. L'uscita di scena di Sega e Konami è solo l'ultimo segnale d'allarme.

Tutti noi dobbiamo molto al Giappone. Se non fosse per aziende come Nintendo e Sega, che hanno ripescato il mondo dei videogiochi dal baratro in cui era caduto nei primi anni '80, probabilmente il nostro settore oggi non esisterebbe nemmeno. Se Sony non avesse lanciato la sua prima PlayStation, avviando un fenomeno di trasformazione culturale straordinario, forse la nostra industria non sarebbe mai maturata fino a diventare il colosso affermato e riconosciuto che è oggi.

Ma parlare solo di videogiochi è addirittura riduttivo. Per almeno un trentennio, dalla metà degli anni '70 fino ai primi Duemila, non c'è adolescente occidentale che non sia stato affascinato e influenzato, in qualche maniera, dall'incredibile produzione creativa che la terra del "Sol Levante" ha riversato sui nostri lontanissimi paesi sotto forma di fumetti, cartoni animati, gadget, action figure e così via. Un fenomeno di compenetrazione culturale straordinario, che ha portato ad una sorta di venerazione per tutto ciò che di fantastico provenisse dal lontano oriente. I creativi giapponesi, semplicemente, sapevano parlare al mondo intero come nessun altro.

I videogiochi sono stati una parte centrale di questo fenomeno. Vent'anni fa, la grande maggioranza dei titoli più importanti, belli, amati e influenti (specialmente nell'ambito arcade e console) veniva dagli sviluppatori giapponesi. Giochi come Mario, Zelda, Resident Evil, Castlevania, Metal Gear, Gran Turismo, Street Fighter, Final Fantasy, Virtua Racing, Ridge Racer (si potrebbe continuare all'infinito...) hanno rappresentato per lungo tempo il non plus ultra del gaming e sono stati interamente concepiti, disegnati, sviluppati e diffusi nel mondo da aziende giapponesi.

La situazione di oggi è completamente diversa. Immaginiamo un gamer che, come nel film Good Bye Lenin!, dal 1999 abbia dormito un lungo sonno per risvegliarsi soltanto adesso. Probabilmente, stenterebbe a credere alla realtà che lo circonda.

Non solo videogiochi ma anche cartoni animati, fumetti, robot, action figure: per oltre un trentennio il Giappone è stato una sorgente inesauribile di materiale 'nerd'. È un film che ormai si è concluso?

SEGA, dopo aver rappresentato il secondo pilastro di un duopolio durato una decade, oggi nei fatti non esiste più. Il suo recente annuncio di volersi concentrare sulle piattaforme mobile, rilasciando addirittura 46 titoli nel corso di un solo anno, parla chiaro sul suo stato di salute e sui livelli qualitativi che intende esprimere di qui in avanti.

Konami, dopo una lunga querelle con Hideo Kojima che ha portato alla fuoriuscita del popolare designer e che di certo non lasciava presagire buone cose, ha dichiarato di voler anch'essa abbandonare il mercato delle console, per concentrarsi sui settori mobile e probabilmente sul gioco d'azzardo digitale.

Ovviamente, entrambe le aziende attraversavano da tempo una situazione difficile, ma vederle abbandonare così il "nostro" mondo nel giro di poche settimane l'una dall'altra è stato un duro colpo, almeno per il lato più malinconico e romantico del gamer che è in noi. Un colpo che purtroppo non rappresenta un fulmine a ciel sereno, ma l'epilogo ormai prevedibile di una crisi che perdura da anni nel mondo dello sviluppo giapponese.

Gli altri "grandi" di un tempo, infatti, non se la passano molto meglio. Nintendo è ancora in buona salute, ma lontana anni luce da quel ruolo di centralità assoluta che deteneva ai tempi dello SNES o persino del più recente Wii, con tutte le sue eccezioni e unicità. La stessa Sony, nonostante il successo trascinante di PS4, non può dirsi esattamente una fucina di titoli "made in Japan": i suoi maggiori progetti degli ultimi anni sono quasi tutti di matrice occidentale (The Last of Us, Uncharted, Killzone, Infamous, The Order 1886), mentre quelli orientali latitano, a partire da Gran Turismo fino a The Last Guardian, su cui ormai più o meno tutti hanno perso le speranze.

15 anni dopo aver cessato la produzione di hardware, ora SEGA abbandona di fatto il mondo delle console. Un segno inequivocabile del cambiamento dei tempi.

Squaresoft è in piena crisi d'identità: non trova più il consenso di una volta con la sua gallina dalle uova d'oro Final Fantasy e deve ricorrere a partnership con sviluppatori occidentali per lanciare ancora titoli di un certo peso, come Tomb Raider, Thief o Deus Ex. Namco, un tempo regina degli arcade, praticamente non sviluppa più.

Qualche soddisfazione a fasi alterne arriva ancora da Capcom, ma di certo nulla di paragonabile a quelle dei gloriosi anni di Street Fighter e Resident Evil. Anche lei poi non fa più tutto da sola: per ritrovare il successo di critica con il suo ultimo Devil May Cry, ad esempio, si è dovuta affidare ad uno studio occidentale (Ninja Theory).

Ad altri game designer un tempo leggendari non è andata meglio che a Kojima. Shinji Mikami è "freelance" da un pezzo e il suo ultimo titolo (The Evil Within, pubblicato dalla occidentale Bethesda) non ha riscosso particolari apprezzamenti. Koji "Iga" Igarashi e Keiji Inafune, per portare avanti il proprio lavoro rispettivamente su Castlevania e Mega Man, hanno addirittura dovuto abbandonare le loro aziende e ricorrere all'auto-finanziamento di Kickstarter.

Inafune, in particolare, è noto per aver rilasciato al Tokyo Game Show del 2009 una dichiarazione dal sapore piuttosto definitivo: "il Giappone è finito. Abbiamo chiuso. La nostra game industry è finita".

Oltre a Hideo Kojima, negli ultimi anni molte leggende del game design giapponese hanno abbandonato le loro aziende: Shinji Mikami, Keiji Inafune, Hironobu Sakaguchi, Koji Igarashi, Tomonobu Itagaki...

La domanda, a questo punto, è: quanto resta oggi di quel meraviglioso Giappone che tutti noi ricordiamo dagli anni '80 o '90? Quanti videogiochi che contano vengono ancora ideati, diretti e sviluppati da aziende giapponesi?

Ovviamente, alcuni esempi positivi si possono ancora fare: c'è senz'altro Platinum Games, che continua a proporre titoli dal livello qualitativo notevole, sebbene incapaci di diventare fenomeni mass-market. From Software ha tirato fuori dal cilindro il capolavoro Demon's/Dark Souls, che indubbiamente ha portato una sferzata d'innovazione all'attuale panorama del gaming. Nintendo, sebbene schiacciata in un angolo dalla concorrenza e incapace di raggiungere il grande pubblico come un tempo, sviluppa senz'altro giochi di alto livello.

Se però siamo ridotti a cercare esempi con la lente d'ingrandimento, questo significa che rispetto agli anni in cui "giapponese" era sinonimo di prodotto digitale all'avanguardia e trend-setter nell'ambito della cultura nerd, oggi il panorama è irriconoscibile. L'impressione è che il Giappone abbia perso la sua capacità di parlare al mondo intero e sia tornato a richiudersi nei propri confini territoriali, concentrandosi sul mobile/social gaming in stile orientale che tanto spopola nelle sue sale giochi o sui velocissimi treni per pendolari, ma gettando la spugna per quanto riguarda la missione di rappresentare ancora una forza creativa trascinante per l'intero settore.

Di certo, la situazione ha molte concause e non si può riassumere con il semplice tracollo della creatività orientale. Un grosso ruolo è giocato dagli attuali costi di sviluppo, che moltiplicandosi nel tempo hanno portato a strutture societarie sempre più grandi, al meccanismo della serializzazione annuale dei "tripla-A" e ad un impiego di forza lavoro molto precario: tutti cambiamenti mal digeriti dal sistema giapponese.

Negli ultimi anni, gli esempi di prodotti interamente giapponesi che hanno saputo produrre un forte impatto sull'industria non sono molti. Dark Souls è indubbiamente una splendida eccezione.

Alti budget comportano la necessità di vendere enormi quantità di copie per rientrare dei costi di sviluppo. Anche per questo motivo, i publisher giapponesi in molti casi si sono trovati di fronte ad una scelta difficile: andare sempre più incontro ai gusti dei gamer occidentali, "snaturando" il proprio stile nel tentativo di massimizzare le vendite, oppure ritirarsi semplicemente nel mercato nazionale, rinunciando dunque all'ambizione di creare blockbuster universali.

Infine, un grosso ruolo è stato giocato anche dalla morte (in Occidente) delle sale giochi e di conseguenza dei titoli "arcade", settore nel quale le aziende giapponesi sono state per un ventennio maestre indiscusse.

Quali che siano le cause, però, è evidente che la crisi dello sviluppo giapponese non sembra trovare appigli d'arresto, e che per molti dei suoi grandi nomi di un tempo è ormai giunto il momento dei titoli di coda. Possiamo, almeno, consolarci sapendo che è stato un film bellissimo.