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In memoria delle Lame del Caos di God of War - editoriale

Le catene della discordia.

L'”ascia del negozietto” l'ha definita Sony Santa Monica durante lo sviluppo e nonostante tutta la grandezza del titolo e l'arcana carneficina che ci permette di fare, il Leviatano può essere effettivamente abbastanza confortevole. È un'arma incantata, che ritorna indietro, come se fosse un falco ben addestrato, dopo che l'avete lanciata, esattamente ciò di cui avete bisogno quando dovete accorciare un gigante oppure appendere un Draugr al muro. Con il manico in pelle e la lama smussata, sembra anche qualcosa che potresti usare per tagliare la legna nei momenti tranquilli, qualcosa che potrebbe prendere polvere in un angolo nelle pause dai deicidi.

L'ascia dice molto del tentativo di Sony Santa Monica di umanizzare il suo protagonista, un gigantesco squalo bianco di cicatrici, che l'ultima volta è stato visto prendere a pugni suo padre e mettere fine all'intera civiltà dell'Antica Grecia facendo crollare il Monte Olimpo. È uno strumento di distruzione e con essa farete cose che sono tanto devastanti quanto i precedenti giochi, ma diversamente dalle Lame del Caos non sembrano mezzi di distruzione di massa. L'uso dei grilletti anziché i tasti frontali per eseguire gli attacchi aggiunge una lentezza insolita, come se ogni colpo dovesse essere attentamente pesato e, ovviamente, bisogna anche tenere da conto della gittata limitata dell'ascia e come si inserisce nel contesto di una telecamera posizionata dietro le spalle.

Nel terzo capitolo potevate lacerare qualcosa cosa in un arco di 360 gradi con le Lame che toccavano per una frazione di secondo ogni singolo corpo. Molte armi nei videogiochi sono altrettanto indiscriminate, ma God of War è una delle poche serie che fa leva su questa insensibilità, buttando nella mischia i civili fra i nemici così che voi non abbiate altra scelta che ammazzarli. Nel reboot di quest'anno, siete meno inclinati o spinti al “controllo della folla”, più preoccupati della linea di tiro e più vulnerabili agli attacchi alle spalle. Ciò si inserisce bene, sebbene un po' prevedibilmente, all'interno del nuovo tema del gioco della interdipendenza emotiva. Oltre a controllare di tanto in tanto le urgenze apocalittiche del suo vecchio padre, vostro figlio Atreus scoccherà frecce e si occuperà di ogni nemico che voi non riuscirete a vedere, una coscienza che vale anche come fuoco di copertura.

Forse ci sto vedendo più del dovuto nell'ascia, ma è difficile non guardare al quadro generale quando consideriamo ciò e le Lame del Caos (chiamate anche Spade di Atena e Lame dell'Esilio) rappresentavano nelle precedenti iterazioni quanto questi giochi facessero affidamento sulle loro peculiarità di frenesia e facilità d'uso. A un livello più pratico, permettevano alla direzione cinematografica e al sistema di combattimento 3D di sedere fianco a fianco senza intralciarsi a vicenda. La generosa gittata orizzontale delle Lame - coperte di fiamme per rendere la loro posizione più ovvia - permetteva ai designer di cambiare la visuale frequentemente senza confondere il giocatore. Qualche volta la videocamera si posizionava, come se fosse la statua di un gargoyle, nell'angolo di una stanza; altre volte sorvolava l'azione come un avvoltoio; altre ancora si concentrava su un'enorme creatura mentre eravate intenti a fare fuori i nemici sullo sfondo. In ogni caso, potevate continuare serenamente a colpire senza il timore di perdere la posizione, sicuri di star colpendo qualcosa.

È un'applicazione meno pulita della tradizione del design in terza persona perfezionata dall'originale Devil May Cry di Capcom, con le sue prospettive fisse che in qualche modo non intralciano mai il suo acrobatico protagonista. Una tradizione che oggigiorno è ingiustamente derisa, ora che i giocatori sono abituati a vedere i movimenti scriptati della telecamere come restrizioni “artificiali”. Il terzo God of War ha portato le cose all'estremo, rendendo l'ambiente mobile quanto la visuale. Fra le varie cose, combattere Titani grandi abbastanza da essere essi stessi il campo di battaglia, allontanando la telecamera al punto che tutto ciò che si vede di Kratos è una danza ritmata di fuoco in una landa selvaggia di pelle pietrificata.

Se le Lame sono coerenti alla visione “casual hardcore” del conflitto epico immaginato da David Jaffe nel 2002, sono altrettanto importanti se lette nell'ottica dell'aspro carnevale di misantropia e autodistruzione di God of War. I primi tre giochi sono essenzialmente la vendetta di un mostro sugli altri mostri che lo hanno creato: una vendetta contro gli Dei che inizia prendendo di mira Ares, il vecchio padrone di Kratos, e poi prosegue abbracciando l'intero mondo di gioco e l'intera narrativa dell'epica dell'Antica Grecia. Reso abominevole dal pantheon dell'Olimpo, l'unico mezzo di Kratos per vendicarsi è diventare ancora più abominevole, inghiottendo i suoi tormentatori e l'orgogliosa realtà di marmo che presidiano.

Incatenate ai polsi del personaggio da Ares, le Lame del Caos simbolizzano naturalmente la sua servitù, ma sono anche i mezzi attraverso i quali intrappola gli altri personaggi, avvolgendo il sacro e il profano nella loro spirale, usando i mezzi della propria degradazione contro la stessa mitologia che lo muove. Tante delle pornografiche esecuzioni di God of War sfruttando le Lame per smembrare gli avversari, stringendoli fino a farli a pezzi in scene che ricordano i manuali di tortura dell'Inquisizione. Nel terzo capitolo, solleviamo il Dio dell'oltretomba sopra il fiume Stige, sbattendo le sue cervella contro il tetto di una caverna; nel primo, trasciniamo un'idra insieme a noi agganciandoci con una catena mentre cadiamo. In tal senso, il sistema di combattimento di God of War è un'ironica, sebbene appena accennata, rappresentazione del fatalismo della storia. Mostra un uomo abominevole che sprofonda ancora di più trascinando con sé qualsiasi cosa, una parte del corpo alla volta, finché non resta più niente da lacerare.

Affondare nell'auto-disgusto sembra essere il destino di ogni violenta serie di videogiochi e devo ancora trovare un esempio migliore di God of War 3, un gioco che inghiotte qualsiasi pretesa di eroismo che una volta la serie poteva avere, finendo per parlare del mondo. Salvo la distruzione di Zeus, ogni altra motivazione viene persa e tutto ciò che si trova fuori da questo caos viene infilzato e buttato nel mezzo. Il modo in cui il gioco usa il sesso, per esempio, è una cruda seppur stranamente schizzinosa estensione del proprio bagno di sangue. Se lo volessi, potresti andare a letto con Afrodite, la dea dell'amore, usando lo stesso sistema di combinazioni contestuali di tasti che serve per legare le catene al collo degli dei dell'Olimpo e ad arpionare i loro torsi. (La scena in questione è ancora più rilevante per il modo in cui la telecamera improvvisamente sviluppa un'avversione ai fluidi corporei e alle penetrazioni, dopo ore inenarrabili spese a pugnalare e fare a pezzi.)

Nel suo percorso verso la distruzione del suo universo, God of War 3 inevitabilmente punta il dito verso il giocatore come il vero manipolatore, eclissando anche l'odiato Zeus. Questa idea è resa ancora più esplicita quando Kratos si prepara a eliminare Poseidone, dio degli oceani. Anziché testimoniare la carneficina come le precedenti sequenze contro i boss, la telecamera vi intrappola nella testa di Poseidone e, essenzialmente, vi invita a ridurvi a brandelli. Ciò culmina con la necessità per il giocatore di premere le levette affinché Kratos affondi i pollici negli occhi di Poseidone riportandovi poi al benedetto santuario della terza persona. In questo modo, la rabbia contro il mondo viene trasformata in rabbia contro il giocatore, il dio che non viene mai visto e che muove le catene di Kratos. La sequenza avviene durante i primi momenti della storia, ma avrebbe dovuto essere la scena finale: il momento in cui Kratos, dopo aver sconfitto la morte, aver decapito il sole e ucciso il suo creatore, trasferisce infine la sua collera nella cornice attraverso cui viene raccontata la storia.

E in mezzo a tutto quell'orrore, come se fossero arterie pulsanti, le Lame del Caos. Ha senso che la serie abbia sempre faticato a sfuggire dalle loro catene: Sony Santa Monica ha introdotto molte armi nel corso degli anni, ma poche sono altrettanto viziose e molte (come gli Artigli di Ade e i Cestus di Nemea) sono essenzialmente le Lame in un'altra forma. Ciò resta valido per l'ascia Leviatano, per quanto distante possano sembrare la struttura del design e l'ambientazione nordica di God of War 4 rispetto alla precedente apocalisse. Accanto alle Lame l'ascia è quasi benigna, uno strumento anziché un attributo maledetto, agganciato all'armatura di Kratos e non incatenata al suo braccio. Non è più un'arma che lo definisce, ma come le Lame del Caos, è un'arma che spesso si trova a usare. In tal senso cattura, nel suo piccolo, la transizione fra le epoche della saga di God of War, dal nichilistico simulatore di massacri a una travagliata storia di redenzione. È l'emblema di un uomo che ha imparato a controllare la sua violenza, ma che ha perso ben poco l'appetito.