In un videogioco non si esce mai davvero all'esterno - editoriale
Dentro una skybox.
Una delle cose più belle e allo stesso tempo inquietanti che mi piace pensare quando gioco ad un videogioco è che, anche quando si è all'esterno, non si è mai davvero fuori. Prendiamo ad esempio Animal Crossing, un gioco che più all'aperto di così non si può. Nell'originale classico osserviamo il paesaggio da una distanza familiare e ovunque intorno a noi vediamo erba verde, alberi e, ogni tanto, qualche roccia. Quando poi esplodono i fuochi d'artificio in certe serate speciali, possiamo vederli sopra di noi, ma anche riflessi nell'acqua dello stagno sottostante. Cosa potrebbe esserci di più “all'esterno” di questo?
Poi ci incamminiamo fino ai confini del villaggio, ma cosa c'è lì? Un'elegante scogliera. O un oceano. O una linea ferroviaria con l'inizio di un tunnel che sembra non portare da nessuna parte. Quel tunnel sembra uno di quei teli scenici usati dai gruppi teatrali locali e ci fa capire che quel villaggio ha dei limiti. E forse lo stesso vale per il cielo sopra di noi, perché non può essere semplicemente aperto, no?
Sono estremamente incerto su ciò che costituisce la realtà in termini di possibilità della geometria dei videogiochi. Una parte di me pensa tuttora che se i designer di Animal Crossing avessero lasciato, per così dire, il tetto aperto, i nostri animali sarebbero andati troppo in alto e si sarebbero scontrati con un caos nucleare fatto di uno e zero: il codice del gioco che sfugge al mondo di gioco. Ridete pure di me, fate quello che volete. Sono sicuro che ci sia qualche tipo di confine lassù. Una specie di tetto a volta sul quale le stelle sono semplicemente dipinte. Sono certo che la realtà di ogni spazio di un videogioco sia la recinzione. Ogni designer deve avere una strategia per i limiti: come nasconderli, come renderli naturali, come guidare l'occhio e i piedi lontano dalle loro superfici che distruggono l'illusione.
Durante un viaggio in autobus ho improvvisamente capito che non importa se abbia ragione o torto sui confini. Non importa se da qualche parte si trova un esempio di mondo di gioco aperto sul vuoto o se ho sostanzialmente, e vergognosamente, frainteso il modo in cui i giochi sono fatti, dando per scontato che in ogni gioco che presenta un cielo, ci debba anche essere uno skybox.
Non importa, perché penso che i giocatori credano che sia così, consapevolmente e talvolta inconsciamente. Questo è il modello che molti di noi hanno in testa. E la ragione per cui la cosa è interessante, a mio parere, è perché manifesta un pensiero che spesso mi ha sfiorato, ma che non ero ancora mai riuscito a realizzare del tutto: il continuo passare, mentre giochiamo, da pensiero conscio a inconscio quando incappiamo nei confini di gioco.
Lasciate che faccia un esempio fresco nella mia mente, perché ci ho giocato di recente. Dauntless è un titolo in stile Monster Hunter che sperava di avere il successo di Fortnite su PC e console. Lo adoro. Si lascia il proprio hub chiamato Ramsgate e ci si avventura in un mondo in frantumi per abbattere imponenti animali e trasformarli in indumenti ed armi. E poi si ricomincia con un po' di esperienza in più e magari anche di fortuna e tutto inizia a girare. Dopo una settimana di gioco però, ho scoperto che non mi piace più lasciare Ramsgate. Non c'è quasi nulla da fare nell'hub, è progettato come una piccola città, una via d'accesso ad un'estremità che lascia il posto ad una serie di strade sovrapposte e spazi pubblici. Ma resta per me comunque difficile allontanarmene.
E cosa faccio lì? Le cose che mi è permesso fare: craftare oggetti, prendere missioni, vedere che cosa hanno da dire gli NPC. Ma faccio anche quello che penso tutti facciano nei giochi una volta che sono rimasti in un determinato spazio abbastanza a lungo: testare i limiti. Immagino che la cosa spesso sia inconscia, e immagino anche che diventi conscia solo occasionalmente. Mi ritrovo a vagare per una strada cercando di entrare nello spazio tra le case e di colpo lo realizzo: sto cercando i muri invisibili.
Muri invisibili! Dovremmo odiarli nei giochi. Rompono tutto l'incantesimo. Ma ciò che è sorprendente è che non lo fanno davvero o comunque non spezzano l'incantesimo per molto tempo. Ne trovi uno e ti rendi conto che si tratta di un mondo falso. Ma sai già che quel mondo è falso perché lo hai comprato e scaricato, ha regole, un'interfaccia utente e una schermata iniziale e forse ha anche un manuale. I muri invisibili quindi diventano un gioco. Dove sono collocati? Come funzionano?
Ramsgate ha alcuni evidenti muri invisibili. Uno oltre il cancello innanzitutto. E poi ce ne sono molti altri che circondano cose macchinose in cui si potrebbe rimanere bloccati. I vicoli tra le case sono necessari alla finzione, ma non sono fatti per essere attraversati, perché lo spazio diventerebbe troppo complesso e ristretto, e così, ecco che c'è un muro invisibile. Mi piace poi sondare le recinzioni di Ramsgate (sono noioso, lo so): alcune di queste si possono saltare, altre invece non lo consentono: muro invisibile!
E so benissimo dove conduce tutto questo. Porta all'inevitabile conclusione che Ramsgate non è un posto reale. Lo so e l'ho sempre saputo. Giocando però a volte me lo dimentico. Penso: ma sì, fammi andare a vedere cosa succede a Ramsgate. Ma faccio tutto questo pur sapendo che nessuno vive davvero in quelle case, che la maggior parte delle porte non si apriranno mai, che l'intero posto è, in sostanza, un menu più che una città.
Tempo fa leggevo il libro “Los Angeles” di Banham, in cui l'autore sostiene che si debba imparare a guidare per comprendere una città la cui lingua è il movimento. “Come le precedenti generazioni d'intellettuali inglesi che hanno imparato da sé l'italiano per leggere Dante in lingua originale, io ho imparato a guidare per leggere la Los Angeles originale.”
Mi ha colpito (forse perché ho trascorso troppo tempo al PC questa settimana) questo passaggio tra diversi livelli di credulità: è un gioco ma è anche un posto. Il posto però è impalpabile, di un'impalpabilità che però non è evidente o importante, ma che è un aspetto fondamentale nella comprensione di un gioco nella sua “lingua originale”. Questi sono posti fatti per noi. Se sono presenti dei puzzle per noi, quei puzzle sono già stati risolti dalle persone che li hanno creati, quelle persone a cui cerchiamo di non pensare, proprio come cerchiamo di non pensare alle altre dieci persone che hanno fatto la fila per parlare con l'NPC che dà le missioni nella piazza cittadina. In alto ci sono le stelle, che sono belle, ma che sono dipinte su una sorta di barriera, devono esserlo. Anche la barriera è bella però, e anche interessante in sé. È cruciale per la realtà di ciò che rappresenta effettivamente la realtà di un gioco.